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struttura e funzioni della cute - Pagina WEB in lavoro

Manuale di
Scienze e Tecnologie
Cosmetologiche


La Cosmetologia è un settore scientifico e di ricerca in continuo
sviluppo 



Presentazione
STRUTTURA E FUNZIONI DELLA CUTE


La cute è un organo molto grande del corpo umano, dotato di
un’ampia gamma di funzioni che esulano dal semplice e banale
rivestimento e protezione meccanica. La sua estensione media varia
da 1, 3 a 2 m��, il suo peso può arrivare anche ad una decina di Kg, il
suo spessore è compreso tra 0, 4 mm nelle regioni palpebrali e 3-6 mm
in quelle palmo-plantari. Il colore della cute è dipendente da fattori
individuali (razza, costituzione, età, regione corporea) ed è
determinato dalla presenza di pigmenti (melanina, carotenoidi) e dalla
quantità di sangue contenuta nei vasi.
La superficie cutanea non appare levigata. Vi si osservano pieghe
permanenti (pieghe genitali) e transitorie (da contrazione muscolare o
articolare), orifizi dei follicoli piliferi e delle ghiandole eccrine (pori
sudoripari), creste e solchi riscontrabili a livello palmo-plantare. Le
creste appaiono come leggere rilevatezze a disposizione parallela
separate da piccole depressioni dette solchi. Peculiari caratteristiche
meccaniche della cute sono la distensibilità e l’elasticità.
CARATTERI MICROSCOPICI
La cute è divisa in due strati separati da una membrana
(membrana basale o giunzione dermo-epidermica). Lo strato
superficiale di natura epiteliale e di derivazione ectodermica è detto
epidermide, mentre lo strato profondo, di origine mesodermica e
struttura connettivale, è costituito dal derma e dal tessuto adiposo
sottocutaneo. La presenza nel derma di vasi, nervi ed annessi cutanei
(follicoli pilosebacei, ghiandole apocrine, ghiandole eccrine)
completa il quadro microscopico della cute.
EPIDERMIDE
L’epidermide è un epitelio pluristratificato in cui l’elemento
cellulare predominante è il cheratinocita, cellula di origine epiteliale
in continuo rinnovamento e soggetta al fenomeno della
cheratinizzazione. I cheratinociti si dispongono a formare quattro
diversi strati: basale, spinoso, granuloso e corneo; nelle regioni
palmo-plantari tra gli strati granuloso e corneo è presente un quinto
strato denominato lucido. Ognuno di questi possiede delle
caratteristiche morfologiche proprie e rappresenta la fase evolutiva del
sottostante strato. Il cheratinocita, infatti, si riproduce e migra
progressivamente dalla sede basale verso la superficie cutanea
subendo il processo della cheratinizzazione. Il tempo necessario
affinché una cellula dello strato basale raggiunga lo strato corneo
dipende dall’età, dalla stagione, dal sesso, da influenze ormonali, ed
è di circa 28 giorni. Interposte ai cheratinociti si osservano poi le
“cellule ospiti” dell’epidermide, tra cui vengono annoverate i
melanociti, di derivazione neuroectodermica, le cellule dendritiche di
Langerhans, che sono di origine midollare, le cellule di Merkel, di
probabile derivazione epidermica ed i linfociti T epidermotropi. Nel
complesso la superficie epidermica presenta un aspetto orizzontale
rettilineo, mentre il limite inferiore confinante con la membrana
basale ha un aspetto ondulato con estroflessioni dermiche (papille
dermiche) alternate a proiezioni epidermiche (creste epidermiche). Lo
strato basale è costituito da 1-2 file di cheratinociti colonnari a
maggior asse orientato perpendicolarmente rispetto alla linea di
confine con il derma. Queste cellule hanno un grande nucleo di forma
ovalare e citoplasma basofilo ricco di ribosomi e tonofilamenti
(filamenti intermedi di cheratina distribuiti con ordine nel citoplasma).
La membrana plasmatica del polo basale fa parte della giunzione
dermo-epidermica e vi si osservano gli emidesmosomi, strutture di
ancoraggio per mezzo delle quali gli elementi cellulari aderiscono alle
porzioni più interne della membrana basale. Nella regione apicale
questa cellula è invece dotata di veri desmosomi tramite cui avviene
l’unione e la comunicazione intercellulare. Nel complesso lo strato
basale svolge le funzioni proliferativa e di ancoraggio dermoepidermico.
Lo strato spinoso o malpighiano è costituito da 4-8 filiere di cellule
poligonali, con nucleo rotondo e citoplasma ben rappresentato ricco
di filamenti di cheratina. La caratteristica principale è la presenza di
numerosissimi desmosomi che conferiscono un aspetto “spinoso” a
questi elementi cellulari. Nel citoplasma delle cellule localizzate nelle
assisi superiori dello strato spinoso si osservano anche i granuli
lamellari o corpi di Odland.
Lo strato granuloso è formato da 2-3 strati di cellule appiattite in cui
si osservano grossi granuli citoplasmatici di “cheratoialina” contenenti
proteine, enzimi e fosfolipidi. Questo strato cellulare è assente nelle

Struttura e funzioni della cute
mucose e può apparire ridotto o più evidente a seconda che il processo
della cheratinizzazione sia molto attivo o rallentato. Lo stadio
maturativo successivo comporta la perdita del nucleo e l’appiattimento
della cellula. Lo strato corneo è infatti costituito da numerose assisi
(15-20) di cellule piatte (corneociti), prive sia di nucleo che di
organuli citoplasmatici e in cui si evidenzia un citoplasma eosinofilo
costituito completamente da filamenti di cheratina aggregati in
macrofibrille. Questi corneociti vengono continuamente rilasciati
nell’ambiente esterno sotto forma di squame. Nelle regioni palmoplantari
tra gli strati granuloso e corneo è poi presente un quinto
strato, denominato lucido, costituito da 2-3 assisi di cellule
contenenti “eleidina” una sostanza omogenea e rifrangente.
L’epidermide ospita anche diversi tipi di cellule: i melanociti, le
cellule di Merkel, le cellule dendritiche di Langerhans e i linfociti T
epidermotropi.
I melanociti originano dalle creste neurali e raggiungono l’epidermide
intorno alla settima settimana di gestazione. Si localizzano a livello
dello strato basale ma possono essere presenti anche nel derma medio,
nel bulbo del pelo e in regioni extracutanee quali le mucose del cavo
orale e del naso, l’uvea, la retina e le leptomeningi. Il rapporto
melanocita/cheratinocita varia considerevolmente in relazione alla
regione corporea: è di 1 a 4 al volto e di 1 a 10 agli arti superiori. I
melanociti presentano un aspetto dendritico con grandi prolungamenti
citoplasmatici, sono privi di desmosomi e la loro funzione principale è
la melanogenesi. Nel loro citoplasma sono presenti caratteristici
organuli, i melanosomi, all’interno dei quali è contenuto l’enzima
tirosinasi capace di convertire l’aminoacido tirosina in melanina. I
melanosomi vengono trasportati lungo i prolungamenti dendritici e
quindi trasferiti nei cheratinociti determinando la pigmentazione
dell’epidermide. L’insieme del melanocita e delle cellule basali che
vengono raggiunte dai suoi prolungamenti (circa 36) costituisce
l’unità melanica epidermica.
Le cellule di Langerhans sono cellule dendritiche di origine midollare
con un fenotipo simile alle cellule della serie monocito-macrofagica.
Esprimono infatti gli antigeni del complesso maggiore di
istocompatibilità (MHC) di classe II, i recettori per il frammento Fc-
Ig, la proteina S-100 e l’antigene Ia. Sono situate negli strati
soprabasali dell’epidermide ed i loro processi dendritici si estendono
in alto fino allo strato granuloso ed in basso fino alla giunzione
dermo-epidermica. La loro funzione principale è quella di processare
gli antigeni e presentarli ai linfociti T in associazione con le molecole
MHC di classe II, consentendo, in tal modo, la risposta immunitaria.
Le cellule di Merkel, di probabile derivazione epidermica, si
localizzano preferenzialmente in distretti cutanei sprovvisti di peli e
dotati di un’elevata sensibilità tattile. Sono situate nello strato basale,
intercalate tra i cheratinociti, ai quali sono adese tramite una fitta rete
di desmosomi. Presentano un nucleo lobulato, un citoplasma chiaro
contenente granuli specifici di forma sferica e si associano a
terminazioni nervose amieliniche tanto da essere considerati dei veri
meccanorecettori.
Infine nell’epidermide è possibile trovare i linfociti T, che non
risiedono ma transitano attraverso la cute e che possono aumentare in
maniera esponenziale in condizioni patologiche di natura
infiammatoria.
GIUNZIONE DERMO-EPIDERMICA
La giunzione dermo-epidermica è la struttura che separa
l’epidermide dal derma. E’ costituita dalla sovrapposizione di due
diversi strati che sono, dall’esterno verso l’interno, la membrana
plasmatica del polo basale dei cheratinociti e la lamina basale
propriamente detta, a sua volta costituita da tre strati sovrapposti: la
lamina lucida, la lamina densa e la lamina fibroreticolare.
Nell’insieme la giunzione dermo-epidermica appare come una linea
omogenea, positiva alla colorazione PAS, interposta tra l’epidermide
ed il derma.
DERMA
Il derma è un tessuto di supporto per l’epidermide costituito da
sostanza fondamentale in cui sono immerse sia una componente
cellulare (fibroblasti, cellule di origine ematica) che una componente
di natura fibrosa (fibre collagene ed elastiche). Il derma contribuisce
in maniera rilevante a determinare alcune caratteristiche della cute
quali lo spessore, la distensibilità, l’elasticità, la forza di tensione.
Nel derma sono contenuti vasi sanguigni e linfatici, nervi e recettori
sensoriali, che svolgono un ruolo nella termoregolazione,
nell’omeostasi dei liquidi, nella percezione sensoriale e nel sostegno e
nutrizione dell’epidermide. In base all’organizzazione strutturale si
distinguono due diversi compartimenti dermici: il derma papillare e il


Struttura e funzioni della cute
derma reticolare. Il derma papillare è compreso tra la giunzione
dermo-epidermica ed il plesso vascolare superficiale. E’ costituito da
piccoli fasci di fibre collagene e da fibre elastiche immerse nella
sostanza fondamentale e con una disposizione perpendicolare alla
superficie cutanea. Il derma reticolare è invece compreso tra il plesso
vascolare superficiale ed il tessuto sottocutaneo. I fasci di fibre
collagene ed elastiche presentano spessore maggiore e decorso
parallelo rispetto al piano cutaneo, mentre le componenti cellulare e
vascolare sono modeste, come anche la quantità di sostanza
fondamentale che appare inferiore rispetto al derma papillare.
TESSUTO SOTTOCUTANEO
Il tessuto sottocutaneo è rappresentato quasi esclusivamente da
adipe organizzato in lobi e lobuli separati da setti di natura
connettivale. Il grasso sottocutaneo svolge le funzioni di riserva
energetica e di isolamento dermico.
VASI E NERVI
La circolazione sanguigna della cute è organizzata secondo uno
schema che prevede lo sviluppo di due plessi vascolari localizzati
rispettivamente al confine tra il derma papillare e reticolare (plesso
superficiale) e tra il derma reticolare ed il tessuto sottocutaneo (plesso
profondo). Esistono vasi sanguigni che mettono in comunicazione i
due plessi, mentre dal plesso superficiale si distaccano vasi capillari
che si dirigono nelle papille dermiche. La circolazione prevede che il
sangue arterioso raggiunga il plesso superficiale tramite i vasi
comunicanti e quindi si diriga verso l’epidermide percorrendo i
capillari all’interno delle papille. Il sangue refluo percorre invece vasi
venosi che hanno un orientamento parallelo a quelli arteriosi.
La componente nervosa della cute è costituita da una ricca rete di fibre
afferenti sensitive e fibre simpatiche efferenti. I recettori della
componente sensitiva possono essere rappresentati da fibre nervose
libere o associati in strutture quali i corpuscoli del Pacini, di Golgi e
di Meissner. Le fibre simpatiche regolano la pervietà ed il diametro
dei vasi e la secrezione ghiandolare.

ANNESSI CUTANEI
Gli annessi cutanei sono costituiti dalle ghiandole sebacee, dalle
ghiandole sudoripare apocrine ed eccrine, dalle unghie e dai follicoli
piliferi.
-Ghiandole Sebacee: hanno una struttura acinoso-ramificata, una
secrezione olocrina ed una distribuzione preferenziale al volto, cuoio
capelluto, regione sternale e perineo. I lobi della ghiandola sono
connessi con il follicolo del pelo e la secrezione, regolata dagli
ormoni androgeni, drena in un comune dotto escretore detto sebaceo.
La sostanza secreta (sebo), costituita da una miscela di lipidi
frammisti a detriti cellulari, contribuisce alla formazione del “film
idrolipidico” cutaneo.
-Ghiandole Sudoripare: sono ghiandole tubulari semplici e si dividono
in apocrine ed eccrine. Le ghiandole apocrine fanno parte del
complesso follicolo-sebaceo localizzandosi soprattutto nelle regioni
ascellari ed anogenitali. Prendono origine dall’epitelio follicolare e
sono formate da una componente secretoria, situata nel derma
profondo, e da un lungo dotto che le collega con il follicolo pilifero.
Le ghiandole eccrine sono più numerose, non associate ai follicoli
piliferi e maggiormente distribuite nelle regioni ascellari, palmoplantari
e al volto. Anch’esse sono costituite da un dotto escretore e da
una porzione glomerulare secernente una sostanza a base di NaCl,
urea, acidi grassi, aminoacidi e proteine. Le ghiandole sudoripare
svolgono importanti funzioni quali la termoregolazione e la
formazione del film idrolipidico.
-Follicoli piliferi: sono costituiti dal pelo e dalle guaine ad esso
associate e si trovano distribuiti su tutta la superficie corporea ad
eccezione di alcune aree quali palmo delle mani e pianta dei piedi,
glande, prepuzio, piccole labbra e falangi ungueali. Il follicolo
pilifero può essere considerato un’introflessione dell’epidermide la cui
struttura, particolarmente complessa, è divisa in senso prossimodistale
in tre differenti tratti: infundibolo, istmo e tratto inferiore. La
porzione compresa tra il punto in cui l’epidermide si invagina e lo
sbocco del dotto sebaceo è denominata infundibolo; l’istmo
rappresenta la parte centrale che dallo sbocco sebaceo giunge fino al

Struttura e funzioni della cute
punto di inserzione del muscolo erettore del pelo; la porzione più
distale e profonda, o tratto inferiore, è la regione del follicolo in cui è
presente il bulbo pilifero dalle cui cellule (cellule della matrice
pilifera) originano il fusto del pelo e la guaina interna. Il fusto del pelo
a sua volta è costituito da tre strati concentrici quali cuticola e
corticale, i più esterni e con funzione di sostegno, e una porzione
centrale chiamata midollare. Nel complesso il pelo è contornato da tre
diverse guaine che dall’esterno verso l’interno sono la guaina
perifollicolare, la guaina esterna e la guaina interna.
- Muscolo erettore del pelo: è un piccolo muscolo liscio annesso al
follicolo pilifero la cui contrazione favorisce lo svuotamento della
ghiandola sebacea e l’erezione del pelo.
- Unghie: sono costituite da una lamina dura di cheratina (lamina
ungueale) e da alcuni tessuti strutturalmente e funzionalmente ad essa
connessi (matrice ungueale, letto ungueale, perinichio, iponichio).
La lamina ungueale è una formazione cornea in continuo
rinnovamento. Ha un aspetto ovoidale, una superficie liscia o
lievemente convessa e si localizza in regione dorsale delle falangi
distali. E’ adagiata sul letto ungueale, strutturalmente costituito da
epitelio squamoso cheratinizzato ed è circondata prossimolateralmente
da una piega cutanea denominata perinichio. La lamina
ungueale origina dalla matrice ungueale il cui epitelio germinativo è
localizzato al di sotto della porzione prossimale del perinichio, mentre
all’estremità delle dita è separata dalla cute del polpastrello tramite un
solco denominato iponichio.
FUNZIONI DELLA CUTE
La cute può essere considerata un vero e proprio organo che
svolge numerose e complesse funzioni:
Rivestimento e protezione: ricoprendo completamente la superficie
corporea e grazie ad alcune caratteristiche quali l’elasticità e la
resistenza, la cute svolge funzione di protezione verso insulti di natura
meccanica (traumi), chimica (acidi, alcali) e fisica (raggi
ultravioletti, corrente elettrica). Rappresenta anche la prima barriera
nei confronti degli agenti patogeni, svolgendo sia un ruolo di passiva
opposizione fisica che un’attiva sorveglianza immunitaria.

Termoregolazione: la cute agisce sia da regolatore termico che da
isolante. Un’importante quota di calore viene rimossa dall’organismo
per mezzo dell’evaporazione del sudore, mentre l’alternarsi di
vasocostrizione e vasodilatazione determina un rapido cambiamento
della portata ematica capillare in relazione alla temperatura
dell’ambiente esterno. Grazie poi alla bassa capacità termica del
pannicolo adiposo la cute avvolge ed isola l’intero organismo
consentendo di mantenere costante la temperatura corporea interna.
Funzione sensoriale: la cute è dotata di un’innervazione sensoriale per
mezzo della quale è in grado di percepire stimoli di natura meccanica,
termica e dolorifica. E’ in comunicazione con il sistema nervoso
centrale e consente all’individuo di adattarsi alle condizioni ambientali
esterne.
Funzione secretiva: la cute è in grado di eliminare cataboliti prodotti
dall’organismo. Tramite le ghiandole sudoripare e sebacee vengono di
fatto secreti acqua, anidride carbonica, sebo e piccole quantità di ioni
minerali (calcio, cloro, potassio, magnesio e sodio). Tale processo
aumenta con l’aumentare dell’attività metabolica.
Funzione di assorbimento: funzione selettiva, sempre più sfruttata per
la somministrazione transdermica dei farmaci.
Funzione semeiotica: importante organo spia di patologie interne in
grado di comunicare con le sue variazioni molti segnali quali pallore,
cianosi, secchezza, pastosità ed edema.

STRUTTURA E FUNZIONE DELL’EPIDERMIDE

Anatomia dell’Epidermide
La conoscenza dettagliata della struttura dell’epidermide dei
mammiferi ebbe inizio con lo studio di sezioni istologiche preparate
opportunamente per l’analisi microscopica. La maggior parte delle
informazioni sulla organizzazione generale dell’epidermide furono
ottenute mediante indagini microscopiche altresì utilizzate per: a) le
osservazioni delle divisioni cellulari nello strato più profondo, lo
strato basale; b) la conformazione “spinosa” di parecchi strati di
cellule sopra lo strato basale; c) la conformazione “granulosa” di
numerosi altri strati di cellule sopra lo strato spinoso; d)
l’osservazione di molti strati di cellule appiattite, apparentemente non
unite tra di loro, nello strato corneo più esterno. Maggiori dettagli
sono stati evidenziati da studi successivi dell’epidermide mediante
microscopia elettronica, quali ad esempio la presenza di granuli
lamellari nelle cellule spinose ed in quelle granulari, l’abbondanza di
filamenti citoplasmatici all’interno di tutte le cellule vitali,
l’organizzazione dei desmosomi e la presenza di lamelle lipidiche tra
le cellule dello strato corneo. Di particolare importanza per le teorie
che identificano nell’epidermide una funzione di barriera, è stata
l’osservazione al microscopio elettronico che le cellule dello strato
corneo sono strettamente aderenti tra loro, anziché avere delle
separazioni o “gap” come invece sembrava dalle immagini al
microscopio ottico. 
1.2 Cellule basali
Lo strato più profondo, basale, è quello responsabile della
generazione di nuovo tessuto mediante proliferazione cellulare. Nello
strato basale, ciascuna cellula è unita alle vicine dai desmosomi e
poggia sulla membrana basale, adiacente al derma, mediante gli
emidesmosomi. Sul lato del derma della membrana basale, si
affacciano delle fibrille che rinforzano l’aderenza delle cellule basali
al derma.

Alcuni dei cambiamenti che avvengono durante la differenziazione
dell’epidermide e che sono rilevanti per lo sviluppo delle strutture lipidiche coinvolte
nella permeabilità della barriera.
Cellule spinose
Le cellule generate dalla continua proliferazione dello strato
basale migrano verso l’esterno e diventano cellule spinose. Lo strato
spinoso risulta formato da 2-3 ordini di cellule ed il suo spessore varia
a seconda della localizzazione. L’aspetto spinoso è dovuto alle
tensioni esistenti tra i desmosomi che uniscono le cellule tra loro.
Fasci di fibre di cheratina attraversano ciascuna cellula per formare
una struttura di rinforzo e di unione tra i desmosomi e i nuclei.
Durante la maturazione le cellule spinose accumulano degli organelli
specializzati chiamati corpi di Odland, granuli rivestenti la
membrana, corpi lamellari, corpi granulari e granuli lamellari. 
 I granuli sono delimitati da una membrana e il loro contenuto è costituito da un
pacchetto di lamelle lipidiche parallele tra loro, probabilmente
generate dalla sovrapposizione di numerose vescicole (liposomi)
appiattite.

Struttura e funzione dell’epidermide
 Il granulo lamellare ha una forma ovoidale e il suo diametro è di 100 nm.
E’ costituito da una membrana lipidica che delimita uno o più fasci di dischi
lamellari. Ogni disco è formato dallo schiacciamento di un liposoma.
Cellule granulari
Le cellule dello strato spinoso migrando verso la superficie
dell’epitelio, diventano sempre più appiattite e allungate e
raggiungono lo strato granuloso. Questo strato è costituito da 2-6 strati
di cellule di cui i nuclei cominciano a mostrare evidenti segni di
alterazione. Inoltre, il citoplasma di queste cellule contiene granuli di
forma e di dimensioni irregolari, che contengono una sostanza
chiamata cheratoialina. Il numero di tali granuli aumenta con
l’avvicinarsi della cellula verso la superficie e tendono ad accumularsi
nella porzione citoplasmatica apicale di ogni cellula.
Cellule di transizione
Le cellule più esterne dello strato granuloso si trasformano in
cellule morte e appiattite dello strato corneo. Tuttavia, durante questo
processo di transizione le cellule perdono gradualmente i loro
organelli subcellulari, compresi il nucleo e la membrana
citoplasmatica. Nel corso del processo, i granuli di cheratoialina
iniziano a fondersi con i fasci di filamenti di cheratina, con
conseguente perdita dell’aspetto granulare della cellula. Inoltre, il
GRANULO LAMELLARE contenuto dei granuli lamellari è riversato nello spazio intercellulare
soprastante attraverso la fusione della membrana limitante di ogni
corpo lamellare con la membrana cellulare, seguita dall’estrusione del
contenuto del granulo dei dischi lamellari.
Cellule cornee
In seguito allo svuotamento dei granuli lamellari nello spazio
intercellulare, le cellule di transizione completano la loro
trasformazione in elementi lamellari estremamente appiattiti,
completamente cheratinizzati e contenenti una bassissima percentuale
di acqua. Le lamelle non contengono né nucleo né organelli cellulari,
ma solo filamenti impacchettati di cheratina, orientati parallelamente
alla dimensione più lunga della cellula. Le fibre di cheratina sono
incluse in una matrice derivata dalla cheratoialina. Le proteine di tale
matrice appaiono degradate in materiale a basso peso molecolare,
inclusi singoli aminoacidi. La resistenza chimica e meccanica delle
cellule cornee è rafforzata da un ispessimento delle pareti cellulari,
conferendo un tipico aspetto ai corneociti. La cosiddetta parete
cellulare è notevolmente resistente ed è formata da un gruppo di 8
proteine (involucrina, cheratoialina, vinculina, ecc.). Tali proteine
sono sintetizzate sia nelle cellule spinose che in quelle granulose e si
depositano sulla faccia interna delle membrane cellulari, ove vengono
successivamente intrecciate con formazione di legami  g lutamil-
lisinici fra catene polipeptidiche adiacentiIl responsabile di tale
intreccio è l’enzima transglutaminasi. La parete va così a sostituire la
membrana fosfolipidica a doppio strato tipica delle cellule normali.
Struttura dei lipidi nell’epidermide
I lipidi sono coinvolti in diverse strutture anatomiche delle cellule
epiteliali e rivestono un ruolo fondamentale nella struttura e nella
funzione del tessuto epiteliale. La membrana plasmatica delle cellule
epiteliali è composta da lipidi, così come tutte le membrane degli
organelli subcellulari, inclusi il reticolo endoplasmatico, l’apparato del
Golgi e le membrane dei granuli lamellari. La composizione lipidica
in queste strutture è stata analizzata e risolta mediante l’isolamento di
sezioni dai rispettivi strati cellulari e, a volte, dall’isolamento di
organelli individuali, seguita dall’estrazione e dall’analisi dei relativi
costituenti lipidici.

Struttura e funzione dell’epidermide
Lipidi delle cellule viventi
Numerosi studi hanno stabilito la composizione lipidica delle
cellule epidermiche. Alcuni di questi sono stati eseguiti su epidermide
di maiali ed i lipidi estratti consistevano principalmente di fosfolipidi,
colesterolo, e glucosilceramidi con tracce di acidi grassi liberi,
trigliceridi e ceramidi7. Da tali studi si può dedurre che la
composizione lipidica delle cellule epidermiche viventi è molto simile
a quella di cellule di tessuti di mammifero. In queste ultime le
membrane sono composte in maniera predominante da fosfolipidi e
colesterolo.
Lipidi delle cellule cornee:
Lipidi estraibili
Dopo digestione con tripsina di cellule vitali di epidermide, lo
strato corneo appare come una pellicola sottile che può essere dissolta
mediante estrazione con cloroformio/metanolo ottenendo lipidi liberi
dello strato corneo. Le immagini ottenute mediante microscopia
elettronica mostrano che questi lipidi sono localizzati principalmente
negli spazi intercellulari tra le cellule cornee e sono praticamente
assenti all’interno delle cellule. I lipidi estratti dallo strato corneo
dell’epidermide di maiale sono composti principalmente da ceramide
(45%), colesterolo (25%), acidi grassi liberi (15%), e trigliceridi,
colesterolo solfato, sfingosina e fosfolipidi (complessivamente 2-
3%)9. I lipidi liberi estraibili dallo strato corneo dell’epidermide
umana sono costituiti da una miscela di ceramidi simile a quella
presente nell’epidermide di maiale ma contengono anche ceramidi
peculiari nei quali il composto base sfingoide è la 6-idrossisfingosina.

In seguito ad estrazione ripetuta dei lipidi liberi dallo strato corneo
isolato dall’epidermide di maiale, l’idrolisi alcalina del residuo non
estratto, libera altri lipidi rappresentati prevalentemente da ceramidi
formati da catene molto lunghe (C30-C34) di -idrossiacidi legati con
sfingosina. La microscopia elettronica mostra che questi lipidi legati
dello strato corneo formano un involucro lipidico esternamente
all’involucro proteico.
Nello strato corneo umano, i lipidi legati a proteine comprendono
una seconda idrossiceramide nella quale il composto di base è di
nuovo la 6-idrossisfingosina. 


Struttura chimica dei ceramidi dello strato corneo.
Lipidi estranei
L’analisi della composizione dei lipidi epidermici, specialmente
quelli degli strati superficiali, non esclude la possibilità di
contaminazione da parte di lipidi derivanti dall’ambiente, oppure da
lipidi prodotti dalle ghiandole sebacee della pelle. In molte specie
animali, incluso l’uomo, notevoli quantità di lipidi di origine sebacea
ricoprono la superficie della pelle, anche in quelle aree che non
presentano ghiandole sebacee, come i palmi delle mani e le piante dei
piedi. Questi ultimi contengono una quantità di lipidi molto bassa
rispetto ad altre aree della pelle ed hanno una scarsa funzione barriera.
Per ottenere una analisi di lipidi epidermici umani non contaminati dal
sebo, è stato necessario ricorrere all’estrazione di lipidi da cisti.
 I contenuti delle cisti non presentano cere o
squalene (markers del sebo umano) e pertanto possono essere
considerati non contaminati da lipidi sebacei.
I lipidi estranei nell’epidermide umana che sono stati seguiti durante
lo sviluppo includono idrocarburi saturi che sono ubiquitari
sull’epidermide umana. L’analisi mediante gas cromatografia di tali
idrocarburi mostra che sono simili in composizione a quelli ottenuti
dalla distillazione del petrolio.
Biosintesi dei lipidi dell’epidermide
Durante le due o tre settimane che intercorrono tra la divisione
cellulare nello strato basale e la perdita delle cellule figlie dalla
superficie della pelle, la composizione generale dei lipidi del tessuto
epidermico resta costante. Tuttavia, all’interno di ogni cellula
avvengono continuamente biosintesi, trasformazione e traslocazione
dei lipidi epidermici.


Biosintesi dei lipidi nelle cellule vitali
La microscopia elettronica indica che le cellule basali contengono
pochi lipidi all’infuori di quelli che sono contenuti nelle membrane
plasmatiche. I lipidi estraibili da cellule vitali di epidermide di maiale
sono costituiti principalmente da fosfolipidi e colesterolo,
presumibilmemte derivati dalle membrane cellulari. I fosfolipidi
contengono un’alta percentuale di acido linoleico, un acido grasso
essenziale che non può essere sintetizzato ma deve essere introdotto
con la dieta. Questo fatto indica che probabilmente le membrane sono
costruite a partire da lipidi preformati che provengono dal sangue.
Risulta tuttavia evidente che le cellule che sono migrate dallo strato
basale verso la superficie dell’epidermide non sono capaci di assorbire
i lipidi dalla circolazione e devono sintetizzare de novo alcuni lipidi
utilizzando precursori a basso peso molecolare. Da tempo è noto che il
precursore idrosolubile per i lipidi della pelle è il glucosio, ma
esistono delle evidenze contrarie, quali ad esempio la biosintesi dello
squalene che continua anche durante periodi di digiuno prolungato.
Durante il differenziamento cellulare notevoli quantità di lipidi
devono essere sintetizzate per costruire i granuli lamellari presenti
nelle cellule granulari e spinose. I ceramidi e gli acidi grassi liberi che
costituiscono tali strutture consistono quasi esclusivamente di acidi
grassi saturi e monoinsaturi, e contengono pochissimo acido linoleico
tranne quello esterificato degli alfa- drossiacidi ceramidi. Queste
osservazioni rafforzano l’idea che le cellule che si stanno
differenziando sono capaci di compiere la biosintesi de novo di molti
dei lipidi che esse accumulano e sono altamente specializzate per
questa funzione. Esperimenti eseguiti utilizzando precursori
radioattivi mostrano che i lipidi sintetizzati sono inizialmente
fosfolipidi e che questi sono trasformati prima in glucosilceramidi e
poi in ceramidi e acidi grassi liberi dopo circa una settimana.


Trasformazioni biochimiche e traslocazione dei lipidi durante la
differenziazione dell’epidermide

La microscopia elettronica mostra che i granuli lamellari sono
esocitati dalle cellule granulari immediatamente prima che queste si
trasformino in cellule cornee. Analisi chimiche di lipidi estratti da
cellule granulari mostrano che le cellule vitali contengono solo
glucosilceramidi, mentre lo strato corneo contiene solo ceramidi. Da
questo si deduce che dopo la loro estrusione dalle cellule granulari, i
glucosilceramidi diventano deglicosilati per trasformarsi in ceramidi.
Come conseguenza del processo di esocitosi, le membrane dei granuli
lamellari diventano parte della membrana plasmatica. Tale processo
risulta in una distribuzione delle catene lunghe di -idrossiceramidi
nell’involucro immediatamente prima della formazione dei legami
crociati con proteine dell’involucro proteico.


Lamelle intercellulari
In seguito all’esocitosi del contenuto dei dischi lamellari da parte
delle cellule granulari, le pile di dischi si disperdono lentamente negli
spazi intercellulari, e si fondono formando una lamella intercellulare
continua. A causa della modalità di formazione dei dischi lamellari,
derivanti dall’appiattimento delle vescicole lipidiche, i dischi
lamellari risultanti (e, conseguentemente, i fogli lamellari
intercellulari) sono doppi bilayer lipidici. 
L’efficacia di un doppio strato lipidico dipende dallo stato fisico dei
lipidi ed anche dalla coerenza dei gruppi polari. I lipidi in fase gel o
fase cristallina sono meno permeabili all’acqua rispetto a quelli in fase
liquida. Inoltre, la resistenza alla permeabilità all’acqua aumenta se
esistono legami idrogeno tra i gruppi polari adiacenti che stabilizzano
la loro associazione. Entrambi questi fattori favoriscono la funzione
barriera delle lamelle dello strato corneo contro acqua e altre molecole
polari. L’esistenza di lamelle lipidiche multiple in ogni spazio

Struttura e funzione dell’epidermide
intercellulare aumenta indubbiamente la funzione barriera
dell’epidermide soprattutto perché la maggior parte delle lamelle sono
strettamente legate tra loro e non esistono spazi attraverso i quali le
molecole di acqua potrebbero infiltrarsi.

Trasformazioni dei lipidi nello strato corneo
Generalmente si ritiene, sbagliando, che le cellule dello strato
corneo siano metabolicamente inattive e incapaci di trasformazioni
enzimatiche. La prima trasformazione operata da queste cellule è la
sostituzione del colesterolo solfato con colesterolo libero sulla
superficie dello strato corneo. Recentemente è stato dimostrato inoltre
che questo tessuto è in grado di idrolizzare ceramidi per produrre
sfingosina libera. Tali trasformazioni possono avere rilevante
significato strutturale e fisiologico.


 Idrolisi del colesterolo solfato
Un’elevata concentrazione di colesterolo solfato sulla superficie
dell’epidermide è correlata con una grave malattia della pelle, l’ictiosi
lamellare. In questa patologia i livelli di colesterolo solfato appaiono
notevolmente aumentati e lo strato corneo diventa ispessito e con
aspetto squamoso. E’ stato dimostrato che la desquamazione è
correlata con la trasformazione del colesterolo solfato in colesterolo
libero ma non è stato ancora chiarito perché l’incapacità di idrolizzare
il colesterolo solfato dia origine a questa grave malattia.


Idrolisi dei ceramidi
I lipidi dello strato corneo contengono dal 2 al 3% di sfingosina
libera, ed è stato dimostrato che lo strato corneo può produrre questo
composto attraverso l’idrolisi enzimatica dei ceramidi. La sfingosina
viene ritenute essere un agente dotato di una potente attività biologica,
specialmente come un inibitore della protein chinasi C.
Particolarmente sorprendente è stata l’osservazione che la
concentrazione di sfingosina libera nello strato corneo è circa mille
volte più alta di quella richiesta per i suoi effetti biologici in altri
tessuti. Tuttavia, resta da chiarire il motivo per cui l’epidermide può
tollerare una così alta concentrazione di sfingosina libera.
Funzione protettiva dei lipidi epidermici
I lipidi che si trovano nello strato corneo sono peculiarmente
idonei per la formazione di una barriera impermeabile a causa del loro
alto punto di fusione e della loro polarità, che risulta efficace nella
formazione di un doppio strato lipidico idrofobico. Tuttavia, altri
fattori nelle lamelle intercellulari oltre all’involucro lipidico dei
corneociti, servono ad incrementare l’efficacia della barriera lipidica.


L’involucro lipidico corneo
I lipidi dell’involucro corneo, come i lipidi delle lamelle
intercellulari, sono in gran parte composti da acidi grassi saturi e con
alto punto di fusione. La funzione barriera delle cellule cornee è
abbastanza diversa da quella della membrana plasmatica delle cellule
viventi, nella quale i lipidi sono liquidi e altamente permeabili
all’acqua. La funzione barriera dell’involucro lipidico corneo spiega
come le cellule dello strato corneo possono trattenere aminoacidi a
basso peso molecolare che sembrano contribuire alle proprietà
caratteristiche dell’epidermide.
L’involucro lipidico dello strato corneo contribuisce inoltre alla
formazione e al mantenimento dei lipidi lamellari intercellulari agendo
come substrato su cui i lipidi non legati possono aderire assumendo la
loro organizzazione lamellare. 

Mantenimento della barriera epidermica
Numerosi processi biologici e biochimici sono richiesti per la
generazione, modificazione e traslocazione dei lipidi epidermici
responsabili della formazione delle proprietà della barriera. Tuttavia,
leggi puramente fisiche governano l’associazione dei lipidi e
l’assunzione di specifiche conformazioni macroscopiche. E’ stato
dimostrato che i lipidi lamellari nello strato corneo possiedono la
capacità, in vivo e in vitro, di ricostituire la loro conformazione tipica
di barriera in seguito a modificazioni fisiche quali calore, abrasione o
esposizione a solventi. Tale capacità è molto importante e supporta
l’idea che l’applicazione di miscele lipidiche sintetiche possa essere di
notevole aiuto nel trattamento di carenze nella funzione barriera
dell’epidermide.
La pelle come barriera
Questo capitolo si occupa dello strato corneo inteso come barriera
e in particolare sulla correlazione tra struttura e funzione. Pertanto, è
necessario descrivere alcuni aspetti fisiologici dell’epidermide che
riguardano la sua funzione protettiva.
E’ ormai universalmente accettato che la pelle è adibita a prevenire
l’ingresso di materiali estranei nell’organismo, ma una teoria più
approfondita identifica la pelle come una barriera che ha il compito di
impedire la perdita di acqua dall’organismo. L’omeostasi dell’acqua è
assolutamente necessaria per la normale fisiologia degli esseri umani
e il ruolo dei reni è quello di mantenere questo equilibrio. Attraverso
la pelle, anche in assenza di sudorazione, si verifica costantemente
perdita di calore, detta «perspiratio insensibilis», che contribuisce ai
meccanismi di termoregolazione disperdendo parte del calore prodotto
dal corpo mediante l’evaporazione di modeste (10 ml/h) quantità di
acqua. L’acqua agisce come modulatore della cheratina dei corneociti
e conferisce alle cellule le necessarie proprietà elastiche. Una pelle
asciutta tende più facilmente a rompersi in seguito a stimoli
meccanici. L’umidità relativa dell’ambiente varia significativamente
ma i corneociti si idratano utilizzando una sorgente permanente di
acqua, il corpo. Il fatto che la ‘perspiratio insensibilis’ sia costante
rivela che questa perdita di acqua non è un difetto della barriera ma un
fattore indispensabile per la funzione richiesta.


I corneociti costituiscono un’impalcatura per la barriera lipidica
L’intero strato corneo può essere visto come una barriera esterna
della pelle, esso è continuamente esposto al contatto con l’ambiente e
subisce gli effetti di agenti chimici e fisici che possono causare una
continua perdita di materiale. Si ritiene che la perdita di materiale
sull’intera superficie corporea (~1, 8 m2) corrisponde ad una pellicola
equivalente allo spessore di un corneocita. Considerando che la
superficie di un corneocita è circa 1000 μm2, l’area complessiva di
questo film corrisponde circa a 1,8 x 109 cellule e poiché lo spessore
di un corneocita è ~ 0, 3 μm e pesa ~ 0, 75 kg m-3, è stata calcolata
una perdita quotidiana approssimativamente di 40 mg di cellule
cornee. Dunque, la quantità totale di materiale biologico perso in
questo ricambio incessante non è irrilevante. Questo continuo
rinnovamento di cellule è un prerequisito fondamentale per conservare
lo strato corneo costante e la barriera funzionale in tutti i suoi aspetti.
Mediante analisi autoradiografiche è stato dimostrato che un
corneocita protegge sotto la sua area da 1 a 20 cellule basali. Questo
spazio viene chiamato unità proliferativa ed è mostrata in Figura 5.
Le cellule della lamina basale comunicano tra loro attraverso le ‘gap
junctions’, e attraverso queste è possibile una regolazione di divisioni
cellulari all’interno di ogni unità proliferativa. Quest’ultima controlla
la migrazione delle cellule figlie dallo strato basale a quello corneo
assicurando così il regolare mantenimento della superficie cutanea. Un
ulteriore meccanismo di controllo è rappresentato dalla variazione del
rapporto ioni Na+/ioni K+ che avviene dentro la cellula durante la
migrazione nello strato spinoso. Elevate concentrazioni di Na+ e basse
concentrazioni di K+, rispetto ai valori normali, dentro le cellule
dello strato superiore, bloccano il ciclo di divisione cellulare
rallentando così l’intero meccanismo.

Struttura del corneocita
Un corneocita può essere descritto come una cellula molto
appiattita, con un diametro di circa 30 μm e uno spessore di 0, 3 m ,
contenente elevate quantità di cheratina. Questa proteina è organizza
in fibrille, è altamente idrofilica e può idratarsi notevolmente. Le
fibrille hanno un diametro di 8 nm e attraversando il corneocita
costituiscono un rinforzo interno che assicura la forma appiattita della
cellula anche dopo prolungate esposizioni all’acqua. Questa proprietà
è dovuta da un orientamento delle fibrille lungo il piano della cellula
fibrille di cheratina orientate casualmente sul piano della cellula . I corneociti
sono ancorati tra loro attraverso i corneo-desmosomi.
Nella dimensione verticale non ci sono fibrille di rinforzo e quindi
le cellule hanno un certo grado di libertà di movimento in questa
direzione, che permette loro di assumere una conformazione meno
appiattita e più ellissoide.
I corneociti sono legati tra loro da desmosomi che impediscono alle
cellule di muoversi nelle altre direzioni del piano della pelle 
I bilayers (doppi strati) lipidici sono inseriti tra i corneociti che ne
proteggono l’integrità.
Lo stato fisico dei lipidi determina le proprietà della membrana.
I lipidi (fosfolipidi) che costituiscono le membrane biologiche
sono formati da una porzione idrofilica (testa) e da una porzione
idrofobica (coda). Per questa ragione i fosfolipidi tendono ad
organizzarsi in micelle o doppi strati lipidici quando si trovano in
soluzioni acquose, formando un compartimento idrofobico costituito
dalle catene carboniose che allontanano l’acqua e da un
compartimento idrofilico che si affaccia all’esterno creando un
confine tra il doppio strato idrofobico e l’acqua. La stabilità di tali
aggregati è determinata da numerosi fattori quali temperatura,
lunghezza delle catene carboniose, grado di saturazione (presenza o
meno di doppi legami), presenza di ioni bivalenti, ecc.

Struttura e funzione dell’epidermide
In genere il fattore più importante è la temperatura. E’ stato dimostrato
che le membrane lipidiche esistono in due differenti stati fisici: uno
estremamente chiuso ed impacchettato, lo stato cristallino, e l’altro
più fluido, lo stato liquido-cristallino. In questo ultimo stato, la
struttura è più permeabile e le singole molecole di fosfolipidi sono
libere di diffondere, seppure lentamente, nel piano della membrana.
Inoltre, in questo stato liquido-cristallino l’acqua entra ed esce
attraverso la membrana con una certa facilità. La transizione tra questi
due stati è determinata da variazioni di temperatura.


Effetto della temperatura sullo stato fisico dei doppi strati lipidici.
Regolazione della permeabilità e omeostasi della barriera epidemica
La permeabilità cutanea è necessaria per una normale e fisiologica
sopravvivenza. Alcuni disturbi come psoriasi e dermatiti atopiche
distruggono tale barriera. Inoltre, un aumento della proliferazione dei
cheratinociti, che determinano iperplasia epidermica, sono associati
alla distruzione della barriera. Il mantenimento della permeabilità
compete allo strato corneo dell’epidermide. La composizione lipidica
dello strato corneo differisce notevolmente da quella di altri strati
dell’epidermide e di altri tessuti. Lo strato corneo è composto
principalmente da tre classi di lipidi: steroli, acidi grassi liberi e
ceramidi. I lipidi dello spazio intercellulare dello strato corneo
derivano principalmente dall’esocitosi dei corpi lamellari.
Numerosi studi hanno dimostrato che la distruzione della barriera
epidermica stimola la rigenerazione e la secrezione dei corpi lamellari.
La distruzione della cute causa degli effetti sulla sintesi dei lipidi, che
avviene in modo molto attivo nei vari strati dell’epidermide. Subito
dopo la distruzione della barriera, si evidenzia un aumento della temperatura
sintesi di colesterolo associata ad un incremento dell’attività
dell’enzima HMG-CoA reduttasi. 
Quest’ultimo è uno degli enzimi chiave della sintesi di colesterolo. 
Anche la sintesi degli acidi grassi
aumenta subito dopo la distruzione della barriera. Questo effetto è
dovuto all’incremento delle attività di due enzimi: l’acetil-CoA
carbossilasi e la acido grasso sintasi, entrambi coinvolti nel processo
di sintesi. La distruzione della barriera causa anche l’aumento della
sintesi di sfingolipidi ma tale processo è ritardato di circa 6, 7 ore. La
stimolazione della sintesi di sfingolipidi è dovuta all’incremento
dell’attività della serina palmitoil tranferasi (SPT), l’enzima che
catalizza la reazione iniziale del processo.
Tutte queste modificazioni di attività enzimatiche mirano alla
ricostruzione della barriera epidermica in seguito a disturbi di varia
natura e ne garantiscono l’omeostasi fisiologica.






informazioni
Cosa sono i cosmetici
Introduzione alla chimica dei cosmetici


Un uomo e una donna partono per un viaggio: oltre agli abiti, la donna porta con sé un beauty case
contenente, almeno, spazzolino, dentifricio, doccia schiuma, sapone, shampoo, latte detergente, struccante
per occhi, crema idratante (a volte sono due una giorno e una notte), deodorante; l’uomo porta con sé, non
necessariamente in un beauty case, lo spazzolino, il dentifricio e il deodorante, forse il sapone. Cosa sono
questi prodotti che gli uomini spesso detestano perché segno di frivolezza e le donne adorano?
La storia dei cosmetici parte da lontano; in molte culture
antiche si utilizzavano i cosmetici per arricchire ed
evidenziare delle parti del corpo ritenute sacre; in altre
culture anche i cadaveri venivano trattati con speciali
unguenti per fare in modo che si conservassero nello
stato migliore possibile. La storia ci racconta di tante
donne che utilizzavano prodotti naturali come cosmetici
sfruttandone le capacità idratanti, purificanti, emollienti
ecc…
Nel corso degli anni l’idea di cosmetico è cambiata e
addirittura per anni è diventata sinonimo di superficialità;
l’utilizzo di cosmetici era associato solo a persone frivole
e per molto tempo, per l’opinione comune, il vero uomo
non utilizzava i cosmetici…
Se, però, guardiamo alla definizione che la legge dà di cosmetico, scopriamo che è davvero difficile non
utilizzarli!!! Vengono infatti definite “cosmetici” tutte le sostanze e preparazioni, diverse dai medicinali,
destinate ad essere applicate sulle superfici esterne del corpo umano oppure sui denti e sulle mucose della
bocca allo scopo esclusivo o prevalente, di pulirli, profumarli, modificarne l’aspetto, correggere gli odori
corporei, proteggerli o mantenerli in buono stato (legge 713/1986, art.1). Alla luce di questa definizione
scopriamo che anche quando utilizziamo il sapone, il doccia schiuma, il deodorante, stiamo utilizzando dei
cosmetici! dunque i cosmetici sono parte di quei prodotti di uso quotidiano di cui (speriamo) nessuno fa a
meno.
Dal momento che li utilizziamo sarebbe quindi utile conoscerli un po’ più da vicino in modo da poter fare delle
scelte consapevoli, così come facciamo per altre tipologie di prodotto. Non è corretto pensare che in fondo
sono tutti uguali e dal momento che non vanno ingeriti, meglio scegliere magari solo in base al costo o alla
pubblicità che più ci colpisce.
Guardiamo la confezione di uno dei nostri cosmetici; frequentemente
troviamo l’indicazione “non testato su animali”; per alcuni di noi
consumatori, già questo potrebbe essere motivo per scegliere un
cosmetico piuttosto che un altro, ma attenzione: in Italia da anni è vietata la sperimentazione dei cosmetici
sugli animali!!! Riporto fedelmente quanto letto sul sito internet di ABC cosmetici (diret tamente collegato
all’associazione italiana delle imprese cosmetiche, UniPro): “Ormai da 20 anni, prima di quanto imposto dalle
leggi, non si svolgono più sperimentazioni animali su prodotti cosmetici nell’ambito della UE. Tra marzo 2009
e marzo 2013 progressivamente, il divieto si estenderà anche alla commercializzazione di cosmetici
contenenti ingredienti testati su animali in paesi extra-UE.
Allora, l’indicazione “non testato su animali” appare
fuorviante; non è falsa e dunque può essere riportata,
ma tutti i cosmetici non sono testati sugli animali!
Immaginiamo di entrare in un negozio e leggere il cartello:
questa merce non è rubata…
Continuiamo ad osservare la nostra confezione e
scorgiamo, facendo bene attenzione, un elenco di
“ingredienti” che compongono il nostro prodotto. La prima
reazione che i più hanno è quella di scoraggiarsi di fronte
a parole impronunciabili e sconosciute, servirà a
qualcosa provare a soffermarsi un po’ di più su
quest’elenco?
Alcuni farmaci, come alcuni antiinfiammatori o anche
farmaci che aiutano il cuore, prevedono un utilizzo
cutaneo: l’applicazione di cerotti comporta un certo tipo di
rilascio del principio attivo che, ovviamente, riuscirà a
penetrare attraverso gli strati cutanei e giungere così a
destinazione. Guardando al nostro corpo, sicuramente la pelle costituisce uno scudo di cui non potremmo
mai fare a meno; è la parte più esterna di noi, che viene continuamente a contatto con sostanze
potenzialmente nocive e che fortunatamente è impermeabile a tante di esse. Ciò nonostante, la pelle non
può essere considerata come uno scudo invalicabile, impermeabile a tutto e resistente a qualsiasi sostanza
e, proprio per l’esempio appena fatto dei farmaci con applicazione cutanea, è una gran fortuna che sia così.
Ci sono quindi molecole in grado di penetrare negli strati più interni della pelle così come ci sono sostanze
che dall’interno riescono a risalire i vari strati della pelle per arrivare all’esterno (pensiamo per esempio al
sudore).
La pelle è ciò che del nostro corpo è costantemente sotto il nostro sguardo, proprio perché ci riveste
completamente, cosa immaginiamo ci sia sotto questo strato che osserviamo cambiare negli anni e nelle
stagioni? Ciò che chiamiamo comunemente pelle e quindi lo strato più esterno si chiama più correttamente
epidermide; lo strato sottostante si chiama derma ed epidermide e derma insieme costituiscono la pelle. Al
di sotto del derma c’è poi un altro strato che si chiama ipoderma. L’epidermide si suddivide in altri strati
ciascuno dei quali è caratterizzato da cellule di forme diverse; sostanzialmente, però, possiamo dire che
nell’epidermide avviene la maturazione delle cellule che quando giungono sulla superficie sono pronte alla
morte. Si ha così un continuo flusso di cellule che nascono, maturano muoiono e vengono
contemporaneamente sostituite da quelle de ciclo successivo. A separare l’epidermide dal derma ci pensa
la membrana basale; la membrana consente il passaggio delle sostanze nutritive dal derma all’epidermide. I
vasi sanguigni sono presenti solo nel derma e quindi le sostanze nutritive
stratigrafia cute
che servono alle cellule epidermiche per crescere a
maturare provengono dal derma e passano attraverso la
membrana basale. Il derma ha una funzione essenziale
di fungere da scheletro per l’epidermide; le cellule
caratteristiche sono molto attive nei primi 30 anni di un
individuo (pensiamo all’invecchiamento cutaneo) e
producono sostanze (ad esempio acido ialuronico,
collagene ed elastina) che sono direttamente
responsabili di molte caratteristiche della nostra pelle,
soprattutto quella dei giovani (resistenza, elasticità.
Tutto ciò ci deve far riflettere sul fatto che, quando un
prodotto qualsiasi arriva sulla nostra pelle, esso può
penetrare negli strati più interni e dunque bisogna
prestare attenzione ai cosmetici che utilizziamo!!! Per
questa ragione è importante cercare di capire quali sono
gli ingredienti presenti nei nostri cosmetici; sapere tutto
nei dettagli non sempre è indispensabile e possiamo
provare almeno ad averne un’idea.
Grazie alla legge 713/1986 sulla confezione dei cosmetici oggi deve essere riportata la lista di tutti gli
ingredienti presenti nel cosmetico; altro punto di vantaggio è che la nomenclatura dei prodotti usati in
cosmetica è stata uniformata almeno per quanto riguarda i paesi europei. Esiste un Inventario Europeo degli
Ingredienti Cosmetici (INCI) che indica il nome sotto il quale indicare una certa sostanza. Non si tratta
affatto di un dettaglio; molte sostanze chimiche hanno un nome tradizionale, che per definizione, può
cambiare da una nazione ad un’altra; esiste poi, la nomenclatura cosiddetta commerciale in cui una sostanza
conserva il nome che gli è stato dato dall’azienda che per prima l’ha introdotta sul mercato ed esiste poi una
nomenclatura ufficiale. La confusione che può derivarne è evidente che sia grande; questa è stata la
ragione che ha spinto il legislatore ad introdurre un sistema ufficiale di nomenclatura per le materie prime
cosmetiche.
Per iniziare ad avere un’idea diciamo che gli ingredienti vengono inseriti nell’INCI in ordine di abbondanza e
già questo potrebbe essere punto di riflessione;possiamo trovare per esempio due cosmetici della stessa
tipologia (ad esempio una crema per le mani) all’olio d’oliva. In una formulazione l’olio figura ad esempio al
terzo posto, nell’altra al sesto: questo vuol dire che molto probabilmente nel secondo prodotto c’è così poco
olio d’oliva che di fatto la nostra pelle neanche se ne accorgerà…magari se ne accorge soltanto la nostra
tasca!
Quello che in campo farmacologico viene definito principio attivo, nei cosmetici si chiama sostanza
funzionale; nel caso riportato, l’olio d’oliva costituisce la sostanza funzionale. È chiaro che per manifestare i
suoi effetti una sostanza deve essere presente in una certa concentrazione e se si usa una concentrazione
più bassa è come se non l’avessimo usata per niente.
Iniziamo a leggere l’etichetta del nostro cosmetico; in genere il primo ingrediente è l’acqua. L’acqua in
genere è il prodotto più abbondante nei bagno/doccia schiuma, negli shampoo, ma anche nelle creme. Se
continuiamo a scorrere l’elenco, sicuramente troveremo un nome che ci indicherà la presenza di un olio o di
un burro. Nelle formulazioni cosmetiche riscontriamo l’utilizzo di oli molto comuni come l’olio d’oliva, l’olio di
arachidi o girasole, l’olio di mandorle così come spesso troviamo il burro di cacao; tutti prodotti che siamo
abituati a trovare nella dispensa della cucina eppure rivestono un ruolo importante nella cosmetica che ne
sfrutta le capacità idratanti, emollienti, addolcenti. Accanto a questi oli di origine vegetale vengono molto
utilizzati in cosmetica anche gli oli minerali come l’olio di paraffina o il glicole di propilene.
Ritorniamo un attimo a sottolineare la presenza contemporanea di acqua e olio. Sicuramente leggendo non
ci prestiamo tanta attenzione, ma se pensiamo alla presenza contemporanea dell’acqua e dell’olio ci
dovrebbe venire in mente qualche domanda. Se in un bicchiere mettiamo acqua e olio scopriamo
l’immiscibilità di questi liquidi. Acqua e olio restano completamente separati; se proviamo ad agitare il
bicchiere, per un po’ avremo
progressione nella separazione di
un'emulsione
l’impressione di essere riusciti a miscelarli,
ma è solo un’illusione; lentamente acqua e
olio si separeranno nuovamente. È la
chimica che le fa separare: acqua e olio
hanno molecole troppo diverse tra loro per
poter stare le une accanto alle altre e quindi
cercano di allontanarsi. Ma allora, come è
possibile che nella nostra crema coesistano
acqua e olio e noi non si manifesta nessuna
separazione?
Intanto quando coesistono acqua e olio
(che con parole più generiche e tecniche si
indicano come fase acquosa e fase grassa)
siamo in presenza di un’emulsione, quindi la
crema per le mani, che ormai è diventata il nostro punto di riferimento, è un’emulsione. Vediamo adesso
perché in questa emulsione non osserviamo la separazione tra acqua e olio. Sono presenti delle particolari
sostanze che si chiamano emulsionanti; chimicamente queste sostanze hanno delle molecole che sono in
parte simili a quelle dell’acqua ed in parte simili a quelle dell’olio. La molecola dell’emulsionante, allora, viene
utilizzata come ponte tra la fase acquosa e la fase oleosa; facendo un viaggio nel microscopico possiamo
immaginare una molecola di acqua che riesce ad essere vicina ad una molecola di emulsionante (nella parte
di molecola più simile) che a sua volta riesce a stare vicina ad una molecola di olio (nella parte più simile).
Ne viene fuori un set di tre molecole acqua/emulsionante/olio che tenderanno a stare vicine e a non slegarsi.
Macroscopicamente siamo in presenza di un’emulsione stabilizzata: quando abbiamo un’emulsione in cui
per un tempo sufficientemente lungo non si osserva separazione, siamo in presenza di un’emulsione
stabilizzata (probabilmente grazie all’azione di un emulsionante). In cosmetica possono essere utilizzati
doversi emulsionanti, ma molto utilizzati sono la gomma xantana (xanthana gum), PEG-7 hydrogenated
castor oil, cetearyl glucoside e carbomer.
Come in tutti i prodotti in vendita, anche nei cosmetici sono presenti i
conservanti. Molto spesso questa categoria viene bistrattata; siamo
portati a pensare che solo qualcosa di scadente o fortemente
industrializzato necessiti di conservanti: è bene sapere che si tratta di un luogo comune assolutamente falso.
Tutti i prodotti che normalmente utilizziamo nella nostra vita quotidiana hanno una loro vita caratterizzata da
una data di nascita e una data di morte. Tutto si degrada per azione della luce, della temperatura, del tempo
e per prolungare il tempo di vita è necessario utilizzare i conservanti. D’alta parte chi comprerebbe un
cosmetico che dopo una settimana si degrada e deve essere buttato? Naturalmente non è necessario
utilizzarli in grandi quantità, ma è necessario utilizzarli. Anche nel caso dei conservanti ne possiamo trovare
diversi esempi nei prodotti cosmetici, ad esempio sodium benzoate utilizzato in coppia con il potassium
sorbate, la famiglia dei parabeni (methyl paraben, ethyl paraben, propyl paraben, butyl paraben) e molti altri.
Oltre agli ingredienti base possiamo trovare poi molte sostanze che arricchiscono il nostro cosmetico dal
punto di vista funzionale oppure ne rendono più semplice l’utilizzo. Parliamo, per esempio, dei modificanti
reologici. La reologia studia la capacità di scorrimento di una materia su
una superficie; nel nostro caso quindi si sta studiando la capacità della
crema di scorrere sulla nostra pelle. Non è un dettaglio: quando si
spalma una crema si desidera spalmarla in modo uniforme sulla
superficie stabilita e se possibile farlo velocemente. Una crema troppo
fluida rischia di scivolare sulla pelle e magari scorrere via, così come una
crema troppo densa sarà difficilmente spalmabile. A volte, fateci caso,
spalmando una crema si forma una striscia bianca che non si toglie
facilmente, ma utilizzandone un’altra non si forma affatto. Il modificante
reologico permette di controllare queste caratteristiche del cosmetico ed
in questo campo i siliconi spesso fanno la parte dei padroni.
Infine si utilizza una fragranza, un profumo che alla lunga sarà elemento caratterizzante il nostro cosmetico.
Anche in questo caso non si tratta di un dettaglio. Non molto tempo fa, una mia amica appassionata di
cosmetici e cosmetici fai da te, mi invitò a casa sua per provare a “fare” una crema per il viso. Da buon
chimico sperimentale che adora qualsiasi ambiente in cui si possano mescolare delle sostanze (sia che si
tratti di un laboratorio, sia che si tratti di una cucina, sia che si tratti di un laboratorio domestico) accettai.
Lei aveva già una buona esperienza nella formulazione quindi quella volta mi sono limitata a seguire una
“ricetta” già collaudata e alla fine quando lei mi ha detto di aggiungere il profumo le ho detto di no. In fondo,
le dissi, abbiamo utilizzato il burro di cacao, che normalmente si associa a qualcosa di profumato, olio di oliva
(che per me ha un buon odore) e tutte le altre materie prime erano inodori. Così lei ha aggiunto un po’ di
profumo alla sua porzione e io contenta di aver realizzato la mia crema, sono tornata a casa con la mia
senza profumo. Dopo due giorni mi sono dovuta ricredere; tutti gli ingredienti, insieme, avevano sviluppato
un odore terribile; la crema mi piaceva tanto, ma era inutilizzabile per l’odore!!! L’aggiunta di profumo non è
quindi soltanto una sciccheria!
Per ogni categoria indicata fin qui troviamo una lunga serie di prodotti che è destinata a crescere sempre di
più: la ricerca cosmetica è sempre al lavoro per mettere a punto nuove formulazioni che risolvano gli
inconvenienti delle formulazioni precedenti, sfruttando l’evolversi di tutte le più moderne tecnologie. La
scelta dei prodotti da inserire in una formulazione non è semplice; al di là della funzionalità del cosmetico,
stabilire quale emulsionante, quale conservante, quale modificante reologico utilizzare spesso rappresenta
una scelta di campo nel senso del target a cui il prodotto si rivolge o nel senso economico. Questo vuol
dire che scegliere un cosmetico piuttosto che un altro non è banale, ma vale la pena provare a farlo in modo
consapevole!!!





Informazioni
I conservanti nella formulazione di cosmetici ed alimenti


La mia mamma è una gran chiacchierona: parla sempre di qualsiasi cosa
le accada nella sua giornata, ma soprattutto adora parlare di tutta la sua
vita di bambina con annessi e connessi. Così un suo ricordo molto
frequente è quello della preparazione dei matrimoni dal punto di vista culinario e nello specifico dolciario.
La zia pasticciera era infatti l’addetta alla preparazione dei dolci che servivano per il banchetto e di quelli
che venivano regalatiagli invitati (usanza ancora viva in
alcuni paesi, almeno in Basilicata). Non era un lavoro
banale soprattutto perché le quantità erano abbastanza
grandi e il lavoro non poteva essere organizzato
diluendolo nei giorni perché altrimenti i dolci si sarebbero
“guastati”. Un problema che, sicuramente, oggi si è
sensibilmente semplificato.
Per allungare la vita di molti prodotti, e non parliamo solo
di prodotti alimentari, ma anche di cosmetici, di farmaci e
di altre categorie di beni di consumo, utilizziamo i
conservanti. Ecco, questa è una parola che nel tempo
ha assunto ormai una connotazione negativa per cui allo
stato attuale, un prodotto sul quale viene indicata a
caratteri cubitali l’assenza di conservanti ci fa pensare ad
una qualità superiore rispetto a tutti quelli che invece
utilizzano conservanti.
Ma da cosa i conservanti devono proteggere il cosmetico o l’alimento?
Ogni molecola ha una sua stabilità che dipende da tantissimi fattori ciascuno dei quali va considerato
insieme con tutti gli altri; tra questi troviamo la temperatura, la presenza di ossigeno, il pH del prodotto e
tantissimi altri. In determinate condizioni i legami chimici che caratterizzano una certa molecola possono
indebolirsi fino a spezzarsi e formare dei legami diversi che quindi evidentemente significano una sostanza
diversa. Molto spesso queste nuove molecole non hanno “proprietà benefiche” rispetto al prodotto e di
fatto rappresentano una degradazione da evitare. Per capire meglio pensiamo ad un cosmetico; sappiamo
che una categoria di molecole presente in molti prodotti di questo genere è costituita dagli oli, molti dei quali
presentano delle insaturazioni (i famosi grassi insaturi); i grassi insaturi in presenza di ossigeno subiscono
più o meno facilmente (dipende dalle caratteristiche strutturali) una reazione di degradazione che procede
attraverso dei radicali liberi portando a molecole dall’odore e sapore (nel caso di alimenti) caratteristici. Il
fatto che ogni molecola abbia una propria stabilità ci fornisce una prima risposta alla nostra domanda: ogni
molecola ha un suo tempo di vita che dipende da un insieme di fattori, ma prima o poi (dipende dalle
condizioni di conservazione) la nostra molecola tenderà a degradarsi. I conservanti, specie la categoria
degli antiossidanti, hanno la funzione di allungare la vita delle molecole cercando di evitare che si verifichino
le condizioni ideali per l’irrancidimento.
Oltre alla stabilità di ciascuno degli ingredienti del nostro cosmetico, bisogna valutare tutto l’insieme.
Periodicamente rimbalzano sui media le notizie in cui si annuncia la
presenza di vita nell’universo e spesso il tutto nasce dalla frase
“scoperta la presenza di acqua….” Già, proprio l’acqua, pare che
abbia fornito l’ambiente necessario alla nascita della vita. Questo
significa che ogni qual volta abbiamo “acqua” (ovviamente in
opportune condizioni di temperatura e pressione) siamo nelle
condizioni favorevoli per la vita di qualsiasi esserevivente che ci sia
simpatico o meno; batteri, spore trovano un ambiente favorevole
per la loro vita. Inoltre non ci dimentichiamo che per quanto
siamo enormemente diversi dai batteri abbiamo necessità simili;
tranne alcune tipologie, anche i batteri come noi hanno bisogno
degli stessi elementi per poter vivere e riprodursi. Il nostro
organismo ha bisogno di proteine, di zuccheri e per i batteri non è
diverso. Questo vuol dire che prodotti come i cosmetici in cui il primo ingrediente è l’acqua o prodotti
alimentari o farmaceutici in cui ritroviamo proteine o altro solo luogo ideale per la vita dei batteri. Nel corso
della storia abbiamo imparato che i batteri non sono sempre nostri alleati e molto spesso risultano aggressivi
verso l’uomo e quindi ovviamente abbiamo iniziato a combatterli. La pericolosità dei batteri, tra l’altro, è da
collegare anche alla produzione di tossine; i batteri infatti producono sostanze che servono per la loro vita,
ma che sono tossiche rispetto all’organismo umano (per questo vengono chiamate tossine). L’utilizzo dei
conservanti, rispetto a questo problema, mira quindi a minimizzare quanto più possibile la proliferazioni di
batteri e anche la produzione di tossine. Altro elemento di difesa deve essere posto contro le muffe: anche
in questo caso l’acqua ha un ruolo importante; per convincercene basta pensare che spesso si trova la
muffa vicino ad una parete se c’è un’infiltrazione di acqua e comunque si è in posti molto umidi. Le muffe,
che in alcuni prodotti sono molto apprezzate, pensiamo ad esempio al gorgonzola, in altri non sono proprio
segno di grande conservazione: pensiamo se una mattina aprissimo il barattolino di crema idratatane …e
trovassimo la muffa!!!
Data l’importanza dell’acqua rispetto al problema della conservazione vale la pena fare una precisazione.
Molti prodotti contengono l’acqua come ingrediente principale o comunque in percentuali elevate, tuttavia
non tutti sono suscettibili nella stessa misura all’attacco di batteri o muffe. Perché?
apparecchio elettronico per la misura
dell'attività dell'acqua
Più che la concentrazione di acqua, per
valutare la possibilità di attacco da parte di
batteri e muffe occorre valutare la cosiddetta
“attività” dell’acqua. Al di là di formule e
definizioni, il concetto di attività dell’acqua
non è molto complicato. Proviamo a
guardare al problema dal punto di vista dei
piccoli batteri o delle muffe. Affinché questi
si accorgano della presenza di acqua,
questa deve essere perfettamente
riconoscibile e diciamo che l’acqua
perfettamente riconoscibile è quella che
determina l’attività dell’acqua e quindi
potremmo dire la reale concentrazione di essa. Insieme con quest’acqua ci saranno altre molecole sempre
di acqua che però interagiscono direttamente con altre sostanze presenti nel prodotto in esame. In questo
caso l’acqua non è perfettamente disponibile e quindi non potrà essere luogo ospitale per batteri e muffe.
Da ciò si capisce che anche molecole in grado di ridurre l’attività dell’acqua possono essere considerati
conservanti.
Molti sistemi conservanti sono utilizzati da tantissimi anni ed in molti di questi
casi solo recentemente se ne sono scoperte le ragioni. Prendiamo il caso
della carne (o anche del pesce) essiccata e conservata o del prosciutto: il
sistema più antico di conservazione prevede l’utilizzo di cloruro di sodio
(NaCl) il comune sale da cucina e di nitrato di sodio (NaNO3). Il primo,
serve per abbassare l’attività dell’acqua (in un certo senso è come se ne
riducesse la quantità presente) mentre il secondo, divenuto pressoché
indispensabile nell’industria delle carni in scatola e dei wurstel, attraverso
una serie di reazioni è responsabile del colore rosso brillante e soprattutto
impedisce la proliferazione di tossine e batteri anerobi tra cui il famoso C.
Botulinum.
Consideriamo più da vicino i cosmetici. Abbiamo detto che la presenza dell’acqua ci deve far pensare
immediatamente alla possibilità di presenza dei batteri, muffe e tossine correlate; inoltre se escludiamo i
saponi solidi che hanno un pH decisamente alcalino, la maggior parte dei prodotti cosmetici ha un pH
compatibile con quello della pelle il che è sicuramente uno svantaggio rispetto all’abbattimento della carica
batterica; altro dato da non dimenticare è la possibilità di irrancidimento di oli e burri.
A questo punto risulta ovvia la conclusione secondo la quale è necessario proteggere i cosmetici al fine di
allungarne la vita ed utilizzarli in sicurezza. Le idee si diversificano quando si cerca di arrivare alla
soluzione del problema, vale a dire l’utilizzo dei conservanti. I motivi per i quali intorno a questa categoria di
sostanze c’è sempre un gran discutere sono diversi.
Si è scoperto come da taluni conservanti possano originarsi molecole di provata cancerogenità, oppure
possano essere causa di allergie ed intolleranze o ancora possano essere sostanze potenzialmente
tossiche. Tutto questo non deve spaventarci perché l’utilizzo dei conservanti è regolamentato dalla legge
in continua evoluzione; ogni settore in cui è contemplato l’uso di conservanti ha la sua giurisprudenza che dà
indicazioni sull’uso di tali molecole sia rispetto al tipo da poter utilizzare e sia rispetto all’intervallo di
concentrazione che deve essere presente in un certo prodotto. Inoltre è molto importante pensare
all’esposizione che abbiamo a certe sostanze; voglio dire che giustamente tutti test di tollerabilità, tossicità,
cancerogenità vengono effettuati utilizzando dosi largamente superiori rispetto a quelle che poi vengono
indicate sulla legge come limiti massimi di esposizione. Inoltre la ricerca è continua per l’aggiornamento
degli elenchi delle sostanze permesse o vietate per un certo utilizzo.
Sicuramente bisogna prestare particolare attenzione a quei prodotti che
sembrano molto convenienti; se il prezzo è molto basso probabilmente il
produttore ha utilizzato materie prime di bassa qualità e quindi anche
conservanti di scarsa qualità a cui si associa spesso una maggiore
probabilità di allergie o intolleranze. Diffidiamo inoltre dei prodotti
pubblicizzati come privi di conservanti: è soltanto uno specchietto per le
allodole; facile che scorrendo lungo la lista degli ingredienti ritroviamo
l’acido ascorbico, i tocoferoli o altri prodotti che vengono utilizzati “anche”
come conservanti!
Normalmente in un cosmetico, ma in generale in un qualsiasi prodotto si utilizza più di un conservante, infatti
nella categoria dei conservanti rientrano una serie di sostanze con attività diverse.
Ci sono alcuni conservanti che hanno la funzione di antiossidanti; con la loro attività evitano l’ossidazione di
sostanze funzionali presenti nel prodotto in questione, evitano la degradazione di molecole, ancora
possiamo dire evitano che il nostro prodotto “vada a male”. Ci sono poi gli antimicrobici e qui dobbiamo
considerare che un antimicrobico non è attivo allo stesso modo verso tutti i batteri; verso alcuni sarà più
efficace, verso altri meno; l’utilizzo di più conservanti contemporaneamente allarga lo spettro di attività
facendo in modo che non ci siano, nel prodotto, alterazioni di qualsiasi genere. Un conservante
antimicrobico mantiene bassa la carica batterica: l’obiettivo può essere raggiunto in modi diversi; alcuni
conservanti hanno un meccanismo di azione noto, altri no. In generale per distruggere ad esempio un
batterio ci sono diverse strategie: si può distruggere la membrana cellulare, oppure si possono denaturare
le proteine responsabili dello sviluppo e della replicazione delle cellule o bloccare i sistemi enzimatici
necessari alla vita delle cellule.
colture batteriche in capsule Petri usate per
alcuni challange test
Affinché una molecola sia classificata
conservante, per un cosmetico, questa deve
superare un test detto “challenge test” . Con
questo test il cosmetico a cui è stato aggiunto il
sistema conservante, viene prima contaminato
con una serie di batteri e funghi, quindi viene
valutata la carica batterica al tempo di
contaminazione; ad intervalli fissati e
regolamentati viene effettuata nuovamente la
conta batterica e lo si fa per 28 giorni. Vengono
valutati i risultati nel corso dei 28 giorni e alla fine
si valuta la carica batterica in Unità Formanti
Colonia al grammo (UFC/g) ed esistono precisi
intervalli numerici in base ai quali ad un
cosmetico viene associato da un basso ad un
alto rischio.
Un conservante molto utilizzato è l’acido benzoico; normalmente viene immesso nella formulazione come sale
corrispondente, cioè benzoato di sodio o di potassio (sodium benzoate/ potassium benzoate) ma è attivo
solo ad un pH pari a 5; la molecola attiva non è infatti il benzoato, ma l’acido benzoico: fino a pH 5 troviamo
l’acido benzoico, quando il pH a un valore più alto è prevalente la forma di benzoato. L’acido benzoico è
presente in molti prodotti naturali come ad esempio i mirtilli, ma quello che normalmente viene utilizzato è un
prodotto di sintesi derivato dal toluene. Il suo uso è indicato come sicuro alle concentrazioni previste dalla
legge e può essere utilizzato come conservante
alimentare, cosmetico e come eccipiente nei farmaci.
Per diverso tempo è stato oggetto di una polemica in
quanto in presenza di acido ascorbico ed in determinate
condizioni può dare una reazione che porta alla
formazione di benzene. In senso lato non si tratta di una
bufala, nel senso che effettivamente la reazione può
avvenire, ma come al solito bisogna osservare le
condizioni in cui questa reazione può avvenire e le
quantità di benzene prodotto. Normalmente i prodotto
contenenti acido ascorbico (vitamina C) vengono staccati
in confezioni opache, che non lasciano passare i raggi
solari e in questo modo viene meno la condizione principale affinché si abbia la reazione dell’acido ascorbico
e l’acido benzoico. Inoltre le quantità di conservante utilizzato sono davvero minime quindi si svilupperebbe
una quantità di benzene davvero minima e non giudicata tossica, pericolosa o peggio ancora cancerogena.
Molto spesso l’acido benzoico viene utilizzato in maniera combinata con l’acido sorbico. Anche in questo
caso nella formulazione è presente uno dei suoi sali quindi è presente come sorbato di sodio o di potassio
(sodium sorbate o potassium sorbate); il pH di azione è anche in questo caso acido (per questo si possono
utilizzare contemporaneamente all’acido benzoico) quindi la forma attiva è quella acida. Inoltre altro motivo
che spiega l’uso concomitante dei due acidi è che quello benzoico è attivo contro i batteri (sia Gram + che
Gram -) invece quello sorbico è attivo contro i funghi. Anche l’acido sorbico è utilizzato come conservante
alimentare e cosmetico e come eccipiente nei farmaci. L’acido benzoico ha uno svantaggio; il suo potere di
conservante non è altissimo quindi logica vuole che la ricerca abbia cercato di lavorare sulla sua struttura
pensando che piccole modifiche potessero portare ad
fusti di metil-parabene stoccati in un magazzino
un aumento della capacità conservante mantenendo la sicurezza
del prodotto stesso. Sono nati così i parabeni. Strutturalmente
sono esteri dell’acido paraidrossibenzoico ed in particolare tra i più
diffusi ci sono il metilparabene, l’etil parabene, il propil parabene e
il butil parabene. Sono conservanti utilizzati principalmente nei
cosmetici ed in maniera ridotta nei cosmetici e nei farmaci; da
lungo tempo sono molto attive polemiche su questa classe di
composti e sono stati compiuti molti studi al fine di valutare la
tossicità e soprattutto la cancerogenità. L’ipotesi è che i parabeni
possano penetrare attraverso la cute ed interferire con il nostro
sistema endocrino. Allo stato attuale diventa difficile avere dei
dati certi rispetto a tale pericolo; il metil parabene e l’etil parabene
sembra che non abbiano alcun effetto. Sono stati, invece, messi in evidenza dei rischi tossici associati
all’uso del propil parabene e del butil parabene. Sicuramente i parabeni riescono a penetrare attraverso
gli strati più interni della pelle e la loro azione dannosa è legata al fatto che probabilmente riescono a
mimare gli estrogeni e quindi essere potenzialmente attivi nei riguardi dei tumori al seno; attualmente non
sono però disponibili studi che accertino tale pericolo anche perché non sono mai stati effettuati studi per un
periodo di tempo sufficientemente lungo da permettere conclusioni definitive in questo senso.
parabeni e congetture sulla loro eventuale attività "xenoestrogenica"
Altri studi hanno verificato il coinvolgimento dei parabeni
nelle irritazioni cutanee specie se associati all’esposizione
solare; molti studi hanno evidenziato un’elevata
percentuale di soggetti che sottoposti
contemporaneamente a parabeni ed esposizioni solari
(nelle dosi comuni di creme ed esposizioni solari estive)
mostravano irritazioni cutanee. Questo è uno dei casi in
cui allo stato attuale ci sono solo dubbi; si parla di
possibili danni, possibili rischi, ma poiché non c’è nulla di
scientificamente dimostrato l’industria cosmetica può
continuare a farne uso. Resta sempre il diritto di scelta
che il consumatore può esercitare nel momento in cui è
informato. Attualmente ci sono delle aziende di prodotti
cosmetici che formula prodotti senza parabeni; sulle
confezioni troviamo l’indicazione “paraben free”;
sottolineo come al solito che non basta l’indicazione di
naturale, verde per essere certi che non ci siano
parabeni. La prova “certissima” resta sempre l’INCI.
Oltre a queste caratteristiche proprie del cosmetico c’è da
considerare un altro punto importante e cioè quello che succede una volta che la confezione è stata aperta.
A ben pensarci anche il tipo di confezionamento gioca un ruolo importante
nella conservazione di un cosmetico. Pensiamo per esempio ad una crema
che è confezionata in un barattolo classico e quindi ogni volta che ne prendiamo
un po’, stiamo “inquinando” il prodotto, anche se abbiamo le mani pulite (non
sono sterilizzate); una crema che invece sia munita di dispenser ovvia a questo
problema e quindi non c’è contaminazione dovuta all’utilizzo. Inoltre in
quest’ultimo caso, sarà molto limitata anche la quantità di ossigeno che entra in
contatto con il cosmetico e abbiamo detto come questo sia un fattore da tener
presente. Anche in questo caso, il discorso dei costi è da tenere in
considerazione. Molto spesso siamo portati a pensare che il confezionamento
di un prodotto sia soltanto il risultato di indagini di mercato volte a capire quale
possa essere quello più comodo o quello più di moda in un particolare
momento. A volte è così, ma non sempre. Il confezionamento e anche la
modalità nella quale viene effettuato può aiutare nella conservazione di un prodotto e in generale nell’utilizzo
dello stesso. Anche in questo caso un basso costo può essere sintomatico di una bassa qualità e non solo
di scarsa attenzione alla “bellezza” di una confezione.







sodio-laurilsolfato-sodium laureth e lauryl sulfate
 funzione e sicurezza nei saponi liquidi



“Vediamo un po’ cosa c’è qui dentro…”. Una sfilza in inglese di nomi chimici, sostanze impossibili anche
solo da immaginare…quante volte tra le corsie del supermercato, delle profumerie o dei negozi che vendono
prodotti per l’igiene personale e della casa ci soffermiamo a leggere quelle fantomatiche etichette, che
dovrebbero svelarci la misteriosa composizione di ciò che usiamo quotidianamente per qualsiasi azione
legata alla nostra pulizia, il miracoloso ingrediente che rende quella
crema così profumata e setosa, il nostro bagnoschiuma preferito
così vellutato e piacevole sulla pelle, il detersivo per i piatti così
efficace. E allora ecco comparire sostanze dai nomi così complicati
e così difficili da ricordare. Eppure, ogni tanto qualcuno rimane
impresso, lo vediamo scritto più volte, diventa quasi familiare e,
tutto d’un tratto, ecco che ne sentiamo parlare, lo vediamo
comparire in alcune discussioni sui blog di internet, nelle
trasmissioni in TV, sui siti di medicina e scienza, sui giornali; magari
viene anche fuori che potrebbe possedere alcune proprietà
tossiche, che potrebbe essere nocivo per la salute ed, infine,
diventa un caso di dominio pubblico, oggetto di diatribe e di studi
sempre più approfonditi.
Sono molte le sostanze che negli ultimi tempi sono state messe
sotto accusa, “processate”, studiate e testate; alcune sono
addirittura state ritirate dal mercato, poiché sia i dati relativi al loro
utilizzo nella popolazione sia i dati sperimentali relativi ad analisi
specifiche avevano dimostrato una loro pericolosità in seguito ad esposizione. Altre sono tutt’ora in fase di
studio, nel tentativo di valutarne il rapporto beneficio/rischio utilizzo, altre ancora sono semplicemente
risultate non nocive all’interno di determinati intervalli di concentrazioni con i quali sono presenti nei prodotti
disponibili sul mercato.
Non è facile, ad oggi più che mai, stabilire cosa SICURAMENTE non
nuoce alla salute e cosa invece la mette in pericolo; contrariamente a
quanto si pensa, non esistono nemmeno in natura sostanze che
possano essere ritenute del tutto benefiche, prive di tossicità e la scienza sta facendo passi da gigante nel
cercare di determinare quali sono le condizioni, le quantità e le circostanze in cui una sostanza possa essere
considerata NON pericolosa. Molto spesso la differenza sta proprio nella QUANTITA’, più che nella qualità.
Una sostanza che da qualche anno a questa parte è al centro di un importante dibattito e sta facendo
parlare molto di sé è il Sodio Laurilsolfato (SLS). Probabilmente si tratta del surfattante anionico più
studiato finora. Ebbene sì, non c’è etichetta che non rechi in pole position questo nome: Sodium Lauryl
Sulfate.
Esso rappresenta uno dei composti chimici
maggiormente utilizzati a livello industriale,
vantando un versatile profilo di applicazione che
lo rende pressoché indispensabile nella
formulazione della maggior parte dei prodotti per
l’igiene della persona, della casa e dell’ambiente:
ha portato ad una vera e propria “rivoluzione” nel
campo dei detergenti sintetici, lasciando per molti
anni nel dimenticatoio i vecchi saponi, la cui
efficacia pulente era decisamente limitata.
Il grande successo riscosso da questo detergente
è legato anche al suo profilo ecologico. A
differenza di detergenti sintetici con catene
ramificate come gli alchilbenzensolfonati, SLS viene degradato quasi completamente ad opera di alcuni
enzimi batterici utilizzati nel trattamento di depurazione delle acque, per evitare che tracce di schiuma e
detersivi finiscano nelle nostre case. Ciò ha permesso di migliorare notevolmente la qualità delle acque di
scarico determinando un minor impatto sulla salute dell’ambiente.
Per capire di cosa si tratta basti pensare alla caratteristica che accomuna generalmente tutti i detergenti: la
formazione di schiuma. Questo fenomeno è dovuto alla presenza all’interno della formulazione di una
sostanza, chiamata TENSIOATTIVO, che ha la funzione di facilitare la bagnabilità delle superfici, la miscibilità
tra liquidi diversi, nonché la rimozione dello sporco dalle superfici, sia corporee, sia di altro tipo, come
pavimenti, arredo ecc. Esistono diversi tipi di tensioattivi, ognuno dotato
di specifiche caratteristiche e profili di attività. In genere sono composti
organici caratterizzati da un gruppo polare ed un gruppo non polare, e
possono distinguersi tra loro, in base alla natura del gruppo polare, in anionici, cationici, anfoteri e non
ionici.
Il SLS appartiene alla classe dei tensioattivi anionici ed è costituito da una coda idrofoba di 12 atomi di
carbonio attaccata ad un gruppo idrofilo solfato: è possibile ottenerlo per solfonazione dell’1-dodecanolo (o
alcool laurilico, C12H25OH) seguita dalla neutralizzazione con il carbonato di sodio.
Per etossilazione viene convertito nel lauretsolfato di sodio (o sodio
lauriletere solfato, SLES), meno aggressivo verso la pelle perché
essendo un solvente meno efficace è meno aggressivo nei confronti delle proteine.
Il principio su cui si basa l’azione dei tensioattivi è dato dalla loro capacità di ripartirsi all’interfaccia tra due
fasi immiscibili tra loro, rendendo possibile l’interazione tra fase polare e fase apolare: si formano in
soluzione delle particelle sferiche, chiamate micelle, caratterizzate da un core centrale polare, contenente la
fase acquosa, verso cui sono rivolte le porzioni polari della molecola, e una porzione idrofobica, costituita
dalle catene carboniose apolari che stanno a contatto tra loro e con la fase apolare. Man mano che il
tensioattivo raggiunge concentrazioni adeguatamente elevate si raggiunge la CMC (Concentrazione
Micellare Critica) e si ha la formazione della classica schiuma, di cui le micelle sono le principali costituenti.
Esse sono in grado di incorporare al loro interno le particelle di “sporco” e permettono di rimuoverle
facilmente dalle superfici.
La formazione di schiuma è una caratteristica che accomuna la stragrande maggioranza dei detergenti
utilizzati e rappresenta un fenomeno pressoché fondamentale nel processo di sgrassamento e pulizia.
Anche sulla nostra pelle, sui nostri capelli, possiamo trovare tracce di grasso, il cosiddetto sebo, prodotto
normalmente dalle ghiandole sebacee poste all’interno del complesso e articolato strato che costituisce il
nostro derma: proprio per questa ragione uno dei componenti principali di bagnoschiuma e shampoo è
rappresentato proprio dal tensioattivo. Il SLS risulta il più utilizzato in assoluto, sia per la facile via di
produzione, che comporta di conseguenza bassi costi del prodotto finito, sia per la versatilità con cui può
essere utilizzato.
Nonostante sia conosciuto principalmente come ingrediente di detergenti
& Co. non possiamo, tuttavia, attribuirgli il solo ruolo di “schiumogeno”.
Se andiamo a esplorare l’intero campo di applicazioni di questa semplice molecola ci rendiamo facilmente
conto di come sia possibile utilizzarlo in tantissime altre modalità: non dimentichiamo che il ruolo di
tensioattivo è importante anche in formulazioni con funzioni diverse da quella detergente. Proprio così. E’
l’esempio di creme e cosmetici, come rossetti e altri prodotti di bellezza, quotidianamente usati da una
elevata percentuale della popolazione. Che cosa sono le creme, se non un semplice esempio di miscela tra
una fase acquosa e una oleosa arricchita di essenze, profumi o principi attivi? Qui il tensioattivo non è altro
che un “legante”, in grado di far sì che sostanze di natura differente tra loro si fondano tra loro per dare un
prodotto dall’aspetto e dalla consistenza omogenea, caratteristiche necessarie soprattutto in campo
cosmetico.
sezione di micella contenente al suo interno "sporco" idrofobo
Ma non è finita qui, anche in ambito farmaceutico le
applicazioni sono numerose. La natura anfotera del SLS ben
si sposa con il ruolo di eccipiente, in particolare per
formulazioni farmaceutiche come capsule e compresse: la sua
struttura apolare, infatti, fa sì che esso possa fungere
ottimamente da lubrificante, aumentando così la scorrevolezza
delle polveri al fine di facilitarne la compressione o favorire il
riempimento di capsule rigide.
Se pensiamo a tutte queste modalità di utilizzo ci rendiamo
conto subito di come esse rappresentino un’area di forte
impatto sulla nostra vita di tutti i giorni: dalla pulizia della
persona, alla cura dell’immagine, fino ad arrivare alla pulizia degli ambienti in cui viviamo, mangiamo,
dormiamo e svolgiamo tutte le nostre attività quotidianamente. Che influenza può avere l’uso di determinate
sostanze su di noi? Come può incidere sulla nostra salute?
Le polemiche nate nei confronti del SLS sono ormai da anni sotto gli occhi di tutti, su internet, sui giornali,
sui blogs: c’è chi sostiene che vi sia la possibilità che questa sostanza sia altamente nociva per la salute
dell’uomo e che, a lungo andare, possa provocare danni irreparabili. C’è chi invece sostiene che non vi
siano dati a sufficienza per ritenerla una sostanza dannosa, o quantomeno ufficialmente ascrivibile
nell’elenco delle sostanze SICURAMENTE pericolose.
Occorre poi distinguere tra chi sostiene che si tratti di una sostanza cancerogena e ne abolisce l’uso dalla
pratica quotidiana, e chi, invece sostiene che, alle dosi con cui quotidianamente veniamo in contatto, il
rischio di cancerogenesi non sussista. Gli elementi per rispondere alla domanda “Ma questa sostanza fa
male?” tuttora scarseggiano e stabilire cosa sia giusto fare e cosa no è una faccenda delicata. Seppur in
passato la scoperta di questa sostanza abbia rappresentato un enorme passo in avanti per quanto riguarda
la biocompatibilità, sia a livello fisiologico che a livello ambientale, l’avanzamento delle tecnologie e della
ricerca hanno messo in luce aspetti negativi e svantaggi che non si adattano alla necessità, ad oggi più forte
che mai, di una maggiore tutela della salute.
sodio lauriletere solfato (SLES anidro, in polvere)
Nonostante le critiche mosse nei confronti dell’SLS siano
numerose e coprano un vasto raggio d’azione, è
soprattutto a livello dermatologico che l’interesse nei
confronti dei possibili effetti tossici si è concentrato
maggiormente. Molti sostengono che le ripercussioni
sul sottile equilibrio di attività enzimatiche utili alla vita ed
ai processi fisiologici cutanei possano essere a lungo
andare deleterie e portare, così, ad un impoverimento e
ad un deterioramento delle funzioni della nostra pelle.
Infatti, sebo e sudore, fattori idratanti che così vengono
eliminati, non sono più in grado di proteggere
l’epidermide che diviene più permeabile ai corpi
estranei, a partire dallo stesso tensioattivo che
penetrando nella cute provoca ulteriori danni; sembra
che uno degli aspetti scoperti recentemente più deleteri
di questi tensioattivi solfati o solfonati sia rappresentato dalla loro
enzimotossicità. Se andiamo a spulciare fra gli studi compiuti in passato
su tale sostanza compaiono dati riguardanti possibili danni a cellule, DNA, microrganismi, effetti teratogenici
e chi più ne ha più ne metta! Ma attenzione, in merito ai risultati dei test tossicologici occorre fare una
precisazione. E’ doveroso distinguere tra tossicità riscontrata su un determinato target utilizzando la
sostanza in esame in forma pura, ad esempio il SLS in polvere, solido bianco e cristallino, e quella
riscontrata in seguito all’utilizzo sull’individuo di un prodotto in cui essa si trova in soluzione/sospensione
insieme ad altre sostanze ad una determinata diluizione. La prospettiva cambia notevolmente se pensiamo
che nella maggior parte delle formulazioni in commercio il quantitativo di SLS non supera il 20-30%!
Ora facciamo un passo indietro, torniamo a parlare di quella molecola dal nome così simile che ci fa pensare
a una differenza pressoché nulla: mi riferisco al Sodium Laureth Sulfate (SLES).
Come già accennato in precedenza si tratta di un prodotto ottenuto tramite etossilazione dell’1-dodecanolo e
presenta un gruppo etereo all’interno della catena alchilica :
Le proprietà chimico-fisiche delle due molecole sono pressoché
identiche, così come la capacità di agire da tensioattivi e il potere
schiumogeno. Anche il costo di produzione è paragonabile e relativamente basso, motivo per cui possiamo
trovare l’uno o l’altro nelle varie formulazioni di cosmetici, shampoo e simili presenti sul mercato. Se
andiamo ad analizzare l’aspetto tossicologico notiamo, nuovamente, che i rischi derivanti dall’utilizzo di SLES
risultano analoghi a quelli riscontrati per SLS: irritazione a livello di cute e occhi, con intensità crescente in
maniera direttamente proporzionale all’entità di esposizione.
In merito alla cancerogenicità, aspetto molto dibattuto, diverse fonti
autorevoli, in seguito a valutazioni tossicologiche e, soprattutto,
epidemiologiche, hanno definito entrambe le sostanze come “non
cancerogene”, cercando di stemperare il clima di allarmismo che si era creato in seguito alla diffusione di
vere e proprie “leggende metropolitane” sui potenziali effetti devastanti di tali specie.
Nello specifico, la polemica sollevata circa la possibile cancerogenicità
di SLES è legata, prevalentemente, alla presenza di una sostanza
contaminante, l’ 1,4-diossano. Tuttavia, da studi tossicologici ed
epidemiologici è emerso che questa sostanza sia in realtà un
“probabile cancerogeno”, poiché non vi sono prove riguardo ad un
reale incremento dell’incidenza di cancro nella popolazione ad essa
esposta. Ad ogni modo, la FDA ha imposto che il quantitativo di 1,4-
diossano presente come contaminante venga rigidamente monitorato e
mantenuto a livelli molto al di sotto della soglia di tolleranza.
Tuttavia, è stato accertato da una commissione del Cosmetic Ingredient
Review negli USA che ingredienti come SLS ed SLES non sono di per
sé cancerogeni, ma già a concentrazioni pari al 20% possono essere
causa di irritazioni cutanee e oftalmiche la cui intensità cresce in
maniera direttamente proporzionale al tempo di esposizione. Il
problema che sorge in seguito a questo dato è rappresentato
dall’impossibilità per il consumatore di determinare la quantità di tale
sostanza all’interno del prodotto presente sullo scaffale del
supermercato, poiché non vi è l’obbligo per i produttori di specificare le
percentuali di ingredienti presenti nelle formulazioni. Ancora una volta è
la quantità, non la qualità, a fare la differenza.
Diversi sono stati i capi di accusa nei confronti di SLS, tuttora non vi è un chiaro profilo tossicologico che
permetta di affermare se l’uso di sostanze che li contengano sia da evitare oppure no. Tuttavia la ricerca in
abito cosmetico sta investendo sullo studio di formulazioni che risultino sempre meno aggressive nei
confronti della pelle e del cuoio capelluto, creando detergenti dotati di un profilo sempre più “biocompatibile”.
Purtroppo, alla luce di quanto detto finora, sapremo solo fra diversi anni se le sostanze frutto
dell’innovazione tecnologica del ventunesimo secolo che avremo tra noi saranno realmente “meno
pericolose”.







la sudorazione - informazioni -


il sudore - composizione - funzioni della sudorazione: 
una descrizione chimica, fisica e biologica


“Non bagnarti, che ti raffreddi!” dicevano spesso le nostre mamma quando eravamo piccoli, inevitabilmente
attratti nei nostri giochi da ogni sorta di apparato da giardino in grado di distribuire l’acqua. Non so voi ma io
per esempio avevo una vera passione nei confronti di tutta quella gamma di erogatori semoventi per irrigare
a pioggia le aiuole.
Non bagnarti che ti raffreddi: però a ben pensarci l’acqua che questi irrigatori distribuivano non era poi di
molto inferiore a quella dell’ambiente circostante, anzi, ricordo dei casi nei quali il contato immediato forniva
addirittura una sensazione di tiepido. Infatti la preoccupazione delle nostre madri non stava tanto nel
contatto immediato, quanto nel fatto che poi quest’acqua “ci restasse addosso”, ad esempio inzuppando i
vestiti, quindi a contatto con la pelle per lungo tempo. Ed
a questo punto i ricordi parlano chiaramente di frescura.
Un raffrescamento spesso gradevole, talvolta
fondamentale nelle calde giornate estive, con buona
pace delle raccomandazioni materne, tanto che la natura
ci ha dotati, come un po’ più un po’ meno tutti i
mammiferi, di un sistema di auto-irrigazione cutaneo,
ritenuto dall’evoluzione così fondamentale da
“permettersi” di estrarre acqua dal corpo per utilizzarla in
questo modo.
Stiamo ovviamente parlando del sudore, ovvero di quel
liquido escreto a livello cutaneo da circa 3 milioni di
minuscole ghiandole sudoripare disperse su un po’ tutta
la nostra superficie corporea e che danno ragione di un
volume giornaliero di liquido prodotto che varia da mezzo
litro a quasi dieci litri in ragione dell’attività fisica che realizziamo, del clima e di caratteristice genetiche e
personali. Lo so, anch’io sono rimasto esterrefatto quando ho appreso di questi volumi in quanto mi sarei
aspettato dei numeri decisamente inferiori: per quale ragione allora i nostri vestiti e la nostra pelle non
restano costantemente inzuppati? La ragione stessa ragione per la quale che giustifica la produzione stessa
del sudore: perché evapora.
Se consideriamo l’estensione della superficie corporea (anch’essa al di sopra delle aspettative: vedere
calcolo in appendice all’articolo), immaginiamo (anche se non è esattamente così) di distribuire su di essa in
modo uniforme e nell’arco dell 24 ore questo volume di liquido e facciamo qualche calcolo, ci accorgiamo
che il sudore stesso evapora per lo più in modo istantaneo non appena viene prodotto, in modo sicuramente
più rapido di quando laviamo il pavimento di una stanza con qualche litro di acqua. Abbiamo infatti la
percezione di essere sudati solo nei momenti, di solito minoritari nell’arco della giornata, nei quali la velocità
di produzione di sudore supera quella di evaporazione.
A differenza dell’ebollizione, l’evaporazione è un fenomeno di vaporizzazione che coinvolge solo la superficie
del liquido, ovvero il suo strato di contatto (o interfaccia) con l’atmosfera. Pur realizzandosi ad una
temperatura anche di molto inferiore rispetto a quella di ebollizione per quella data pressione (ad esempio i
classici 100°C per l’acqua alla pressione di 1 atmosfera, ovvero al livello del mare), ad esempio alla
temperatura ambientale, l’evaporazione è un fenomeno in generale più lento e
che dipende nella sua velocità relativa da una moltitudine di fattori differenti
quali la concentrazione della stessa sostanza nello strato aeriforme
soprastante (tadotto nel caso del sudore: dall’umidità dell’aria), ovviamente
dalla temperatura, dal trasferimento di massa interno al liquido
(mescolamento) ed all’interno dello strato aeriforme soprastante (vento o
comunque movimento dell’aria), ed infine dall’estensione dell’interfaccia
liquido-atmosfera. La condizione migliore per garantire una veloce
evaporazione per un dato liquido, come è facile immaginare a questo punto,
quella di trovarsi con un liquido distribuito in uno strato sottile, continuamente
rimestato, a temperatura elevata, sotto un’atmosfera “secca” (a bassa
concentrazione di quella specifica molecola allo stato di vapore) ed anch’essa
in movimento.
Consideriamo la questione relativa all’estensione della superficie di interfaccia. Basti bensare a quanto
tempo può impiegare, alla stessa temperatura e nella stessa stanza, un litro d’aqua ad evaporare da una
bottiglia stappata (magari dopo due settimane il livello sarà sceso di soli pochi centimetri) rispetto alla
velocità che la stessa operazione potrebbe avere se lo stesso litro d’acqua lo avessimo introdotto in una
bacinella larga e bassa, o addirittura ai pochi minuti che avrebbe impiegato per evaporare se lo avessimo
distribuito su tutto il pavimento della stanza. Il caso del sudore sulla nostra superficie corporea corrisponde
molto da vicino a quest’ultima casistica, con la variante rappresentata dal fatto che il sudore non arriva sulla
nostra pelle tutto insieme come l’acqua del risciacquo ma viene prodotto (e quindi evaporato) in modo
piuttosto distribuito nell’arco della giornata.
Questione concentrazione di sostanza nello strato aeriforme sovrastante il liquido: è noto a tutti che quando
il clima è molto umido a parità di temperatura ambientale, ad esempio nelle giornate estive di afa, sudiamo di
più. In realtà la situazione è leggermente diversa: non è la produzione di sudore ad essere incrementata,
tantomeno come qualcuno ipotizza “l’umidità che ci si appiccica addosso”, bensì è la velocità di evaporazione
del nostro sudore ad essere limitata e pertanto questo sudore si accumula sotto forma di strato liquido sulla
nostra pelle e sui nostri vestiti.
Infine il movimento dell’aria, ovvero il vento, quello
naturale o indotto dalla presenza di un ventilatore in una
stanza: il movimento dell’aria consente il contuo ricambio
degli strati di aria immediatamente a contatto con la pelle
e quindi con l’interfaccia del sudore liquido, con strati
nuovi di aria a concentrazione più bassa di umidità,
favorendo l’evaporazione del sudore.
Ed il refrigerio che in tutto questo proviamo è la ragione
stessa, non l’unica ma sicuramente una di quelle
principali, per la quale l’evoluzione ha favorito nella
classe animale dei mammiferi la capacità di sudare in
quanto prerogativa generalmente vantaggiosa,
ovviamente con tutti gli opportuni distinguo specifici del
caso.
L’evaporazione di un liquido richiede chiaramente calore. Il liquido evaporando sottrae questo calore dal
sistema, ad esempio dal corpo sulla cui superficie è distribuito, e lo restituisce alle particelle a questo punto
aeriformi della sostanza evaporata sotto forma di energia cinetica. La superficie di evaporazione, e in
ragione della sua cnduttività termica anche il corpo sottostante, impoveriti di energia termica vedono di
conseguenza ridursi la loro temperatura: in pratica si raffreddano. A parità di temperatura del corpo e
dell’ambiente circostante, se favoriamo in qualche modo l’evaporazione del film di liquido presente sul corpo
(es. il sudore), ad esempio tramite la ventilazione dell’ambiente, favoriremo anche l’abbassamento della
temperatura del corpo.
Come anticipato poc’anzi non è facile trovare una descrizione fisica precisa, ovvero un’equazione
perfettamente definita, per descrivere e magari anche prevedere il fenomeno dell’evaporazione.
Un’equazione a carattere generale, e proprio per questo sempre piuttosto approssimata nei casi concreti, è
quella che deriva di derivazione daltoniana:
• D = diffusività del vapore d’acqua
• δ = spessore dello strato limite di liquido
• ρs = densità vapore d’acqua su superficie evaporante
• ρr = densità vapore d’acqua su interfaccia strato limiteatmosfera
• λ = calore latente di vaporizzazione
Anche senza scendere troppo nei particolari della formula, si può notare come essa racchiuda una sintesi di
un po’ tutti i fattori in gioco descritti finora a parole.
Volendo ricercare delle relazioni che descivano in modo più rispondente specifiche realtà evaporative, uno
dei fattori più imprevedibili che entrano in gioco è quello relativo alla resistenza alla diffusione del liquido
legato alla natura chimico-fisica o semplicemente morfologica della superficie sulla quale esso è distribuito.
Ad esempio per valutare l’evaporazione di acqua dalle piante si utilizza spesso la seguente equazione,
sicuramente più complessa sia dal punto di vista matematico che concettuale:
• ψs = tensione di vapore su superficie evaporante
• ψr = tensione di vapore su interfaccia strato limite
atmosfera
• Ra = resistenza alla diffusione
• Rt = resistenza aggiuntiva, tenendo in considerazione che
l’acqua non è direttamente a contatto con l’atmosfera ma si trova all’interno di tessuti vegetali
Ra, Rt ed eventuali altri fattori moltiplicativi, per quanto determinanti, sono comunque specifici del modello
che andiamo a studiare e variano a seconda del fatto che si condieri ad esempio l’evaporazione del
contenuto acquoso cellulare in vegetali sottoposti ad essiccamento (volendo anche i funghi messi a seccare
in cucina), l’evaporazione dell’acqua dagli oceani o magari quella del sudore dalla nostra pelle.
Si sarà notato che in entrambe i casi, più generale e più specifico, compare il coefficiente λ, definito come
“calore latente di vaporizzazione”. Esso è in qualche modo il vero cuore della questione e già di per sé
potrebbe aiutarci intuitivamente a comprendere la ragione per la quale un liquido può raffreddare la
superficie dalla quale evapora. Il calore latente associato ad una trasformazione termodinamica (non solo
l’evaporazione, ma anche la fusione, la sublimazione o
qualsiasi altra transizione di stato) è definito come la
quantità di energia per unità di massa necessaria allo
svolgimento di questa trasizione o pasaggio di stato. La
sua unità di misura è il J/Kg, ovvero il Joule (unità di
misura dell’energia) per chilogrammo di materia
trasformata.
Durante una transizione di fase, nel caso specifico
durante l’evaporazione, l’energia fornita (nel nostro caso
assorbita dal corpo) non va ad incrementare la
temperatura del sistema, ovvero né del liquido, né nel
corpo solido né dell’atmosfera dove avviene il passaggio
a vapore; al contrario, questa energia energia assorbita
va ad agire sulla forza dei legami intermolecolari, che nel
caso dell’evaporzione vengono “allentati” nel passaggio
dalla forma liquida a quella aeriforme della stessa
sostanza. Tutto questo è descritto in modo più preciso
dalla cosiddetta “teoria cinetica dei gas”.
Trasportato nel caso dell’evaporazione del sudore dalla
pelle, questo spiega la ragione per la quale non è tanto il
sudore a raffreddarsi (se lo fa è da considerarsi solo
come una sorta di effetto indiretto) quanto il corpo sottostante. L’evaporazione del sudore, e quindi a monte
anche la sua produzione, come strategia biologica per mantenere la termoregolazione corporea dal
momento che, come noto, al di sopra dei 40-41°C, come nei casi degli stati febbrili più gravi e prolungati,
iniziano ad avvenire le prime forme di degradazione dei tessuti biologici viventi (es. alcune proteine iniziano a
degradarsi già a partire da queste temperature).
In realtà quando parliamo di sudore confondiamo spesso l’esistenza di due tipologie ben distinte di liquidi
prodotti, con composizione chimica e funzioni biologiche molto diverse, prodotte da due tipi di ghiandole che
in effetti hanno ben poco a che fare l’una con l’altra, salvo per il fatto che espellono entrambe il loro secreto
a livello di superficie cutanea, seppur in zone preferenizli del corpo spesso differenti.
Abbiamo da un lato quello che io chiamerei il sudore vero
e proprio: una soluzione acquosa molto diluita di sali
minerali, contenenti solo poche tracce di molecole
differenti quali urea e cresoli (isomeri del metil-fenolo). La
concentrazione di questi sali, in gran parte costituiti dagli
ioni sodio, potassio e cloruro, è di circa 110 millimoli/litro,
quindi inferiore rispetto ai 9 g/l di sodio cloruro di una
tipica “soluzione fisiologica”, ed è per questo che è
definita ipotonica: di fatto l’organismo non ha il minimo
interesse ad espellere sali minerali, rischiando di
impoverirsene con gradi conseguenze per la sua
fisiologia, non essendo per di più utili per il fenomeno di
raffreddamento del corpo per evaporazione del sudore
stesso. Questo sudore è escreto da ghiandole a
secrezione esterna di tipo eccrino, decisamente la
maggioranza della ghiandole sudoripare del nostro
corpo, distribuite un po’ ovunque ma soprattutto sulla
superficie del palmdo delle mani e dei piedi, delle ascelle
ed intorno agli orifizi corporei facciali e ano-genitali.
Questo tipo di liquido, il sudore per antonomasia, è prodotto nella specie umana da bamini ed adulti, maschi
e femmine, e non ha di per sé stesso un particolare odore: sali minerali ed urea sono di per sé inodori e gli
altri composti organici presenti o sono anch’essi poco odorosi o sono presenti ad una diluizione tale da non
incidere significativamente sulle qualità olfattive del nostro corpo.
Chlamydosaurus kingii
La sudorazione in genere sembra essere prerogativa dei
mammiferi ed anche fra di essi esistono differenze sostanziali
nella quantità e nella distribuzione del sudore prodotto: di
pensi ad esempio ai cani, la cui funzione di scambio termico
è realizzata per lo più tramite la mucosa orale di lingua e
bocca (quindi non è possibile parlare di “sudorazione”), in cui
le ghiandole sudoripare sono concentrate per lo più sotto i
cuscinetti delle zampe. Per inciso, negli animali appartenenti
ad altre classi, diverse da quella dei mammiferi, ad esempio
nei rettili ed altri animali definiti “a sangue freddo”, la
termoregolazione non può essere realizzata tramite
l’evaporazione del sudore causa assenza di ghiandole
sudoripare e viene di solito realizzata tramite superfici
corporee sottili ed estese che fungono da scambiatori termici
non soltanto per il raffreddamento ma anche per il
riscaldamento del sangue capillare in esse circolanti.
Una tipologia molto diversa di secreazione cutanea, tuttavia
solitamente assimilata al sudore precedentemente descritto,
è invece prodotta da un genere diverso di ghiandole a secrezione esterna, dette ghiandole sudoriparie
apocrine. La diversità risiede in primo luogo nella genesi di questa secreazione: a differenza delle
mesocrine, le ghiandole apocrine riversano sull’epidermide, attraverso il loro dotto deferente (canalicolo che
sfocia solitamente in corrispondenza di un pelo, o di quello che ne rimane) un fluido che consiste
essenzialmente nel contenuto citoplasmatico delle cellule ghiandolari.
sezione di derma con annessi
Estremizzando il concetto è come se invece di “essudare” un
liquido, in qualche modo filtrato e selezionato dalla membrana
cellulare come le mesocrine, le estremità delle cellule che
costituiscono le ghiandole apocrine finissero “tagliate” e quindi il
fluido che esse riversano sulla pelle fosse direttamente quello in
esse contenuto, ovvero il contenuto, complesso e concentrato,
del loro citoplasma. Si tratta di una secreazione sempre a base
acquosa ma più concentrata, ad elevato contenuto lipidico,
ovvero più oleoso (evaporata l’acqua infatti tende a rimanere
uno strato lucido lipidico) dove la varietà e la concentrazione
delle molecole organiche supera di gran lunga quella del
sudore precedentemente descritto. Nell’essere umano le
ghiandole apocrine si differenziano da quelle eccrine “nello
spazio e nel tempo”: nello spazio perché risultano meno
uniformemente distribuite, concentrandosi invece in zone più
specifiche: ascelle, genitali ed inguine, orifizi facciali, capezzoli, perineo, ecc; nel tempo perché la loro attività
di secrezione inizia solo a partire dalla pubertà dell’individuo. Esistono inoltre differenze nella distribuzione e
nell’attività delle ghiandole apocrine anche fra i sessi e fra le origini dell’individuo: mentre nei nativi africani
esse risultano più abbondanti e di dimensioni maggiori, all’estremo opposto abbiamo la popolazione asiatica
a presentare la minor ricorrenza di ghiandole sudoripare di tipo apocrino. Da non confondere con le
ghiandole sebacee, anch’esse collocate a livello dermico e collegate con il loro dotto deferente solitamente
alla struttura di un pelo, ma diverse già dal punto di vista morfologico (struttura a grappolo composto da
acini anziché tubolare avvolta) e soprattutto per la natura del fluido prodotto, il sebo, quest’ultimo di natura
strettamente lipidica (trigliceridi, acidi grasi liberi e loro monoesteri definiti “cere”, squalene, ecc). Ritengo
che l’argomento relativo alla composizone, funzioni e biochimica del sebo possano costituire nel suo insieme
l’argomento per un intervento a sé stante, per cui in questo momento concentrerei l’attenzione sul sudore,
inteso come insieme di secreazioni accomunate da un generale base acquosa.
Come dicevamo, la composizione della secreazione delle ghiandole apocrine differisce in modo sostanziale
da quella delle eccrine. Già il colore risulta essere diverso, essendo quello delle ghiandole apocrine più
tendente al giallino; il contenuto lipidico è maggiore, pur senza attribuire al secreto stesso le qualità di un
olio; infine trattandosi in qualche modo di un riversamento in ambiente esterno del contenuto cellulare è
normale apettarsi concentrazioni di specie organiche più elevate, ad iniziare dalle proteine, proseguendo per
gli acidi organici per terminare con sostanze più specifiche di tipo steoidico.
Più di 200 componenti sono stati finora identificati nel sudore umano. Fra questi particolarmente “critici”
risultano essere alcune specie chimiche classificate come acidi carbossilici (quindi di natura organica),
alifatici ramificati e a catena medio-corta. Una caratteristica di rilievo che accomuna solitamente le molecole
che corrispondono a questa descrizione è quella di presentare un odore molto intenso e decisamente non
gradevole.
Le strutture molecolari dei principali acidi carbossilici con caratteristiche maleodoranti rinvenibili nel sudore
umano (specie inseguito ad attività fermentativa batterica) sono riportate nella seguente figura:
L’acido 3-metil-trans-2-esenoico è stato definito da taluni con il provocatorio appellativo di “ascella in
barattolo” ed è stato isolato dall’istituto Monell Chemical Senses di Filadelfia proprio a partire dal sudore
ascellare; l’acido 4-etil-ottanoico invece, pur presente nel sudore umano, ricorda di più con il suo odore
alcune essenze animali, in particolare l’odore del caprone maschio. L’acido 3-metil-butanoico (detto anche
acido isovalerico) ha invece un odore più indefinito, comunque sgradevole, descritto da qualcuno come
l’odore tipico che si percepisce negli spogliatoi umidi degli impianti sportivi: viene peraltro riportato il fatto
che una parte della popolazione umana, circa il 3%, risulta geneticamente incapace di percepire questo
odore.
Questi acidi organici si collocano a metà strada, in termini di peso molecolare, lunghezza della catena e
volatilità fra i primi termini della serie degli acidi carbossilici, molto volatili e per certi versi “aggressivi”, ed i
composti più pesanti che sono rappresentati dagli acidi grassi, di natura oleosa o cerosa, pochissimo volatili
e comunque inodori. La serie degli acidi carbossilici a corta inizia con il formico contenente un solo atomo di
carbonio (odore ed effetto urticante delle formiche rosse e dell’ortica, che contengono entrambe questo
acido), a cui segue l’acido acetico a due atomi di carbonio (che da ragione dell’odore caratteristico
dell’aceto) e prosegue con gli acidi propionico e butirrico,
rispettivamente C3 e C4, che caratterizzano l’odore di
formaggio rancido che talvolta si ritrova in alcuni insilati
fermentati di origine foraggiera utilizzati come alimento
per il bestiame. Gli stessi acidi propionico e butirrico sono
per altro responsabili di una parte sostanziale dell’odore
che si può sviluppare in seguito a fermentazione batterica
in carenza di ossigeno (quindi in micro-ambienti con poca
aerazione) a carico dei componenti organici contenuti nel
sudore: è il caso dei piedi stretti in calzature poco
traspiranti, fonte come tutti sappiamo di odori non
propriamente gradevoli. L’acido butirrico in particolare è
spesso il punto di arrivo della fermentazione batterica
anaerobica realizzata da batteri dei generi Fusobarterium, Clostridium, Butyrivibrio ed Eubacterium a carico
idalmente di glucosio, ma nella pratica anche di metaboliti intermedi facilmente presenti sulla pelle sudata;
l’essere umano riesce a perepirne olfattivamente concentrazioni anche molto ridotte, fino al limite di 10 parti
per milione, mentre il cane riesce a raggiungere le 10 parti per bilione di soglia olfattiva.
Effettivamente, in aggiunta agli acidi carbossilici ramificati descritti nella tabella precedente, sono numerose
le molecole organiche maleodoranti (o ritenute tali dalla nostra cultura) che, pur non essendo contenute
direttamente nel sudore, possono essere prodotte a partire dalle molecole organiche in esso conteute in
seguito al loro metabolismo da parte dei batteri e lieviti che vivono naturalmente sulla nostra pelle. In questo
caso non soltanto le secrezioni ricche di sostanze organiche prodotte dalle ghiandole apocrine, ma in una
certa misura anche le ridotte concentrazioni di sostanze organiche inizialmente inodori contenute
nell’essudato “limpido” delle ghiandole sudoripare eccrine possono giustificare, seppur in modo indiretto,
l’insorgere di odori corporei sgradevoli: è il caso dell’odore che insorge quando, a seguito di un’attività
sportiva intensa che ha comportato sudorazione con finalità di termoregolazione, non si sia provveduto ad
una tempestiva doccia. L’intervento cosmetico preventivo nei confronti di questa situazione fa ricorso ai
cosidetti deodoranti, denominazione questa sotto la quale dovrebbero ricadere, almeno secondo la
definizione merceologica, prodotti che inibiscano l’attività fermentativa di questi batteri ed eventualmente
mascherino l’odore delle molecole volatili eventualmente prodotte mediante profumazioni intense e
gradevoli.
Un’azione del tutto differente è invece svolta dai cosiddetti antitraspiranti,
prodotti questi in grado di ostacolare “a monte” il riversamento di sudore
sull’epidermide a partire dalle ghiandole sudoripare (N.B. la seguente
descrizione non costituisce esaltazione o giustificazione etica o medica per
l’impiego di tali prodotti antitraspiranti).
Uno dei modi più frequenti per arrivare a questo risulato è quello
semplicemente di occludere i canalicoli con i quali le ghiandole sudoripare,
eccrine ed apocrine, riversano il loro contenuto sull’epidermide, attraverso la
formazione di un gel insolubile, nel più dei caso formato da idrossido di
alluminio. Nei deodoranti ad azione antitraspirante, oserei dire la maggioranza
di quelli in formato spray venduti in Italia dei quali mi sia capitato finora di
leggere l’elenco dei componenti, contiene derivati salini dell’alluminio quali il
cloruro, il cloridrato o il cloridrato misto di alluminio e zirconio.
Un po’ tutti questi composti dell’alluminio, a partire proprio dal tradizionale
cloruro, mostrano caratteristiche acide (l’alluminio in sé è un elemento anfotero)
ed astringenti: una loro prima azione si può quindi manifestare tramite il restringimento del dotto deferente
delle ghandole sudoripare, ovvero del canalicolo con il quale queste scaricano il sudore sull’epidermide. Il
seconda battuta le molecole riconosciute come astringenti, al pari dei prodotti utilizzati per la concia delle
pelli, provocano una denaturazione delle proteine, specie di quelle solubili, con la conseguenza di favorire
l’occlusione degli stessi canalicoli. Un’azione più “sottile” esplicata da questi sali di alluminio è quella di
alterare il potenziale elettrico lungo il dotto sudorifero che alla sua imboccatura ha solitamente un potenziale
negativo, tramite l’introduzione di una catione come quello dell’alluminio avente ben tre cariche positive. In
aggiunta a tutto questo il pH acido di questi composti dell’alluminio contribuisce ad una generale azione
batteriostatica.
Un ultimo effetto di questi composti dell’alluminio deriva dal fatto che essi almeno in parte si idrolizzano in
ambiente acquoso, specie se in condizioni di scarsa acidità, formando idrossido di alluminio. Quest’ultimo,
già di per sé di struttura gelatinosa, fa incontro a reazioni di disidratazione con la perdita di molecole di
acqua fra i gruppi ossidrilici –OH di molecole fra loro vicine, con la formazione di un reticolo di atomi di
alluminio tenuti insieme da ponti ossigeno ed in parte ancora dotati di gruppi –OH residui ai quali si legano
per legami idrogeno molecole d’acqua che contribuiscono a mantenere la struttura in forma di gel. Oltre a
contribuire all’occlusione degli stessi canali sudoriferi, tale gel svolge un’azione legante, quasi sequestrante
nei confronti dell’acqua libera, che ha come conseguenza la riduzione dell’umidità effettivamente disponibile
per l’attività biologica del batteri, compresi quelli responsabili della formazione delle sostanze maleodoranti
già descritte. Anche altri ingredienti cosmetici inorganici, usati soprattutto nei prodotti in polvere, agiscono in
questo senso: fra di essi i casi più conosciuti sono quello del talco (fillosilicato di magnesio) e della silice
(silicio diossido).
Significativo è il fatto che i deodoranti veri e propri sono classificati dall’americana Food and Drug
Amministration (FDA) come cosmetici, mentre gli antitraspiranti sono considerati alla stregua di mediciali,
anche se questa classificazione non sembra per il momento rispecchiare differenti modalità di
commercializzazione o di pubblicizzazione di queste due linee di prodotti almeno in Italia.
esempio strutturale di clatrato
Se proprio vogliamo ridurre l’odore corporeo, anche
quello che un corpo in condizioni igieniche pur vaforevoli
produce, forse dovremmo considerare maggiormente una
particolare categoria di prodotti ad azione deodorante:
simili alle antiche ma intramonatabili polveri assorbenti
l’umidità, come il già citato talco e silice, esitono infatti
polimeri organici di sintesi di tipo reticolare che
funzionano come resine scambiatrici di ioni in grado di
fissare su di esse le piccole molecole ionizzabili (es. gli
acidi carbossilici come anioni, le amine anch’esse
maleodoranti come cationi). Infine esistono molecole di
svariata natura in grado di inglobare in sé stesse ed
immobilizzare le piccole molecole maleodoranti volatili,
tramite la formazione composti di inclusione detti
“clatrati”, dove ogni molecola incorporata (e quindi non
più volatile né avvertibile all’olfatto) va ad occupare una
cavità inizialmente vuota nella particolare struttura del
reticolo cristallino, con la formazione di una struttura
supramolecolare organizzata, il clatrato appunto. E’ il caso dei cosiddetti “saponi metallici”, come ad esempio
lo zinco ricinoleato.
Infine una nota che sicuramente molti lettori stavano attendendo: i feromoni (o ferormoni: entrambe le
diciture risultano corrette) contenuti nel sudore.
Già, perché se la natura ha provveduto già da sola a dotarci di attrattivi naturali dei più potenti, anche
perché in grado di comunicare a livello pressoché subliminale, e non solo nelle dinamiche dell’attrazione
sessuale, noi abbiamo pensato bene di rimuoverne dalla nostra epidermide possibilmente fino all’ultima
traccia rilevabile, per poi investire tempo e denaro per ricoprirci di nuovi profumi, spesso sempre con finalità
attrattive, soltanto meno efficaci.
Molecole di riconosciuto potenziale feromonale umano, tutte accomunate da uno scheletro steroidico, sono
state rinvenute nel secreto delle ghiandole apocrine, che guarda caso iniziano a secernere il loro prodotto
solo a partire dalla pubertà, in particolare in quelle ascellari. Nella figura seguente sono riportate tre delle
molecole più note alle quali viene attribuito un possibile effetto ferormonale attrattivo di tipo sessuale:
Di per sé stesse queste molecole, in verità non poi così volatili come i requisiti di un “buon feromone”
vorrebbero, risultano inodori o addirittura maleodoranti: l’androstenolo ricorda da vicino l’odore di urina
stantia di un vespasiano (second altri il suo odore ricorda quello del muscio) e costituisce un chiaro richiamo
sessuale per il maiale. L’androstenone è presente sia nel sudore che nelle urine dei mammiferi sia femmine
che maschi, compreso l’uomo: una scoperta per certi versi sorprendente è che la tipologia di odore al quale
esso è associato dipende da alcune specificità genetiche del soggetto al quale esso è sottoposto, che si
riflettono in un polimorfismo del gene che codifica il recettore olfattivo specifico per questa molecola: alcuni
soggetti infatti riconoscono in esso un odore piacevole di vaniglia, altri un odore simile a quello di urina di
stalla, altri ancora di legno. Anche la soglia percettiva varia di diversi odini di grandezza di soggetto in
soggetto, a dimostrazione del fatto che, pur ammettendo le proprietà feromonali di queste molecole, gli effetti
delle stesse possono variare anche in modo radicale di persona in persona.
Ritengo possibile che considerazioni analoghe possano essere estese anche agli altri potenizlai ferormoni
umani di natura steroidea.
L’androstanedione è spesso utilizzato come additivo funzionale per profumi maschili e, ultimamente, nella
formulazione di deodoranti che, come una perfetta chiusura del paradigma dell’odore corporeo, vantano nei
confronti del consumatore la promessa contribuire all’accrescimento del suo perso
nale sex appeal.




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Studio delle argille in generale

Argilla


"L'argilla è una terra formata da un complesso di sistemi minerali derivanti dall'erosione millenaria delle rocce granitiche da parte degli agenti atmosferici."
 COMPOSIZIONE
E' costituita principalmente da silicato di alluminio accompagnato da una miscela di minerali (calcio, magnesio, sodio, potassio...), e dai sette metalli pesanti ( argento, ferro, mercurio, oro, stagno, piombo e  rame) presenti in quantità "omeopatica" e quindi terapeuticamente attiva. Le percentuali di questi componenti determinano la colorazione e le proprietà dell'argilla. Le azioni terapeutiche o cosmetiche sono anche legate alla capacità di scambio ionico, grado di essiccazione, tipo di preparazione e granulometria.
Le argille si distinguono per la loro diversa colorazione in:

Argilla verde: Contiene circa il 50% di silicio e il 14% di allumina e il suo pH è leggermente alcalino (7,5-8,5). È l'argilla più comunemente usata per scopi terapeutici poiché possiede il valore più elevato di CSC (Capacità di Scambio Cationico).

Argilla bianca o caolinite: Il pH è acido (pH = 5) e all'esame risulta una presenza di silicio attorno al 48% e di allumina fino al 38%. Per queste caratteristiche è la forma più apprezzata dal mondo cosmetico.

Argilla rossa o gialla: il colore giallo, arancio o rosso è dovuto alla presenza di composti di ferro e di rame. Si usa in associazione con l'argilla verde.
A seconda della granulometria, si distinguono  le argille a macina grossa, fine e ventilata. Le prime due sono adatte per l'uso esterno mentre quella ventilata, di consistenza impalpabile, per uso interno.


PRODUZIONE
Prima di essere immessa in commercio l'argilla subisce una serie di processi che la rendono adatta agli usi terapeutici/cosmetici.

Argilla per uso esterno: dopo essere stata essiccata al sole, viene macinata grossolanamente, quindi mescolata ad acqua fino a ottenere una pasta omogenea che si fa passare da appositi filtri per eliminarne le impurità. Dopo essere stata essiccata di nuovo al sole, viene spezzata, confezionata ed etichettata.

Argilla per uso interno: è sottoposta ad ulteriori lavorazioni, quali la micronizzazione e la filtrazione spinta. Viene poi testata con esami mineralogici, chimici e meccanici, per determinarne rispettivamente contenuto in minerali,percentuali dei componenti e grado di acidità, e plasticità.
  


PROPRIETA' ED IMPIEGO
Il ruolo dell'argilla nella cura di molte patologie è suffragato da numerosi studi, dati clinici ed osservazioni scientifiche, che collocano il rimedio tra quelli di maggior rilievo. Esaminiamone le diverse azioni:
Antisettica e battericida: l'argilla è un complesso sterile in grado di contrastare l'attività dei batteri. Aiuta a combattere i batteri responsabili delle infezioni dermatologiche (ferite, piaghe) e i parassiti intestinali, ristabilendo contemporaneamente l'equilibrio della flora microbica compromesso da enteriti, coliti e colibacillosi.
Assorbente e antitossica: l'argilla è un efficace rimedio contro avvelenamenti da sostanze tossiche ma è anche filtrante nei confronti dei liquidi e gas, per il suo alto potere assorbente (dal 20 al 50% del suo peso).
Cicatrizzante ed antinfiammatoria: le qualità basiche dell'argilla (quella verde è leggermente alcalina) fanno si che questa funga da biocatalizzatore nella trasformazioni chimiche. La terra accelera le reazioni chimiche e biologiche, favorisce il fissaggio dei minerali apportati all'organismo dall'alimentazione e l'eliminazione dei cosiddetti "radicali liberi" responsabili di  molti fenomeni degenerativi.
Una buona argilla deve avere un elevato grado di scambio cationico CSC (superiore a 30), deve essere sufficientemente grassa (contenuto minimo in silice del 40%), possedere una certa plasticità  (contenuto minimo in alluminio del 10%) e un pH vicino alla neutralità.
Pur essendo l'argilla uno degli elementi più atossici e meno allergizzanti, bisogna sempre verificarne la personale compatibilità. Una regola fondamentale è quella di non riutilizzare mai l'argilla che esaurisce le sue potenzialità curative nella prima applicazione.
Per uso esterno l'argilla si utilizza sotto forma di cataplasmi e impiastri, bagni, unguenti, maschere e frizioni, eventualmente arricchiti di estratti vegetali ed oli essenziali per potenziarne l'azione.
L'argilla ventilata, assunta sotto forma di bevanda diluita o in compresse e pillole,è la migliore per uso interno poiché libera molti più elementi curativi. Transitando dal tubo digerente, si fissa alle tossine presenti nei vari tratti e permette la loro eliminazione. E'ottima nella cura di gengiviti, stomatiti, piorrea alveolare, angine e raffreddori e coadiuvante nel trattamento di affezioni dell'apparato digerente (ulcere, dissenterie).
L'argilla è anche un valido presidio cosmetico ed igienico contro caduta dei capelli, rughe, smagliature e cellulite. Eccellenti, infatti,sono le capacità toniche, riequilibranti ed energizzanti, dovute all'elevato apporto di oligoelementi.
Nelle preparazioni cosmetiche vengono esaltate le virtù dell'argilla bianca, riconosciuta per la sua maggiore delicatezza. Come peeling aiuta la desquamazione e la rigenerazione della cute. Può essere impiegata anche per il suo potere assorbente - deodorante nella regolazione della traspirazione. Di rilievo è anche l'azione antiedemigena, che combatte la ritenzione idrica con un meccanismo osmotico, assorbendo i liquidi e i prodotti di scarto del metabolismo grazie all'elevato apporto di sali minerali.
CURIOSITA'

Le proprietà assorbenti di questa terra possono essere sfruttate in ambito domestico per togliere gli odori sgradevoli dal frigorifero: basta collocare una ciotola di argilla verde sul ripiano inferiore.







Le Proprietà Terapeutiche dell’Argilla
I Suoi Poteri Curativi

Nel 1928, il prof. Laborde, docente alla Facoltà di Farmacia di Strasburgo, dichiarò: 


«La terra curativa, presa regolarmente o periodicamente, è il dono che purifica, vivifica,
compensa e risana, proprietà essenziali della natura.
È un potente dinamogeno che ristabilisce un equilibrio stabile risvegliando l’attività delle
ghiandole».



Come molti altri rimedi naturali, l’argilla è una materia molto complessa:
le sue proprietà
non dipendono cioè da un solo elemento quanto piuttosto dall’interazione delle varie
sostanze di cui è composta, che ne moltiplicano l’efficacia.

L’argilla possiede le seguenti proprietà curative:

-  Antisettica e battericida: l’argilla curativa è un complesso completamente sterile
in grado di contrastare l’attività dei batteri creando un ambiente ostile alla loro
crescita senza recare alcun danno all’organismo umano. 
L’argilla, infatti, agisce neutralizzando solo le eccedenze di batteri, mentre non
ostacola la sana ricostruzione cellulare. Aiuta soprattutto a eliminare i parassiti
intestinali e a ristabilire il giusto equilibrio della flora microbica compromesso da
enteriti, coliti, colibacillosi. 

-  Antitossica: l’argilla è un efficace rimedio contro avvelenamenti da sostanze
tossiche; la sua caratteristica assorbente facilita l’espulsione di veleni
dall’organismo. Nel corso di vari esperimenti è stato dimostrato che mentre una
quantità minima di una soluzione di stricnina somministrata ad alcuni topi ne causa
la morte in pochi minuti, la stessa dose somministrata aggiungendo argilla fa
sopportare agli animali il veleno senza inconvenienti.

-  Assorbente: il suo potere assorbente può variare dal 20 sino al 50% del suo peso.
L’argilla è in grado di assorbire enormi quantità di liquidi, ma anche di gas, proprietà
che viene sfruttata in molte applicazioni curative, soprattutto in caso di
intossicazioni intestinali e problemi dermatologici. 

Può essere, inoltre, utilizzata per deodorare il frigorifero o la cucina: nel primo caso
si metterà su un ripiano una ciotola di argilla; nel secondo sarà sufficiente tenerne
un po’ in un contenitore sopra un mobile.

-  Cicatrizzante: le sue qualità basiche (a pH quasi neutro) esercitano un’influenza
come biocatalizzatore dell’organismo ossia favoriscono l’insieme di reazioni
chimiche necessarie alla vita, ad esempio la coagulazione del sangue e la
rigenerazione della pelle. 
Questa proprietà dell’argilla viene sfruttata sia per curare ferite esterne sia per
curare l’ulcera gastroduodenale.

-  Energizzante: l’argilla contiene vari minerali e oligoelementi che vengono ceduti
all’organismo attraverso le membrane delle cellule del corpo. Questa proprietà
spiega perché essa ha un’azione particolarmente efficace nei disturbi articolari, in
caso di fratture, nelle anemie e in tutti i casi di demineralizzazione.


Le Preparazioni con l’Argilla

-La corretta preparazione dell’argilla per uso esterno-


Mescolando l’argilla con acqua calda, tiepida o fredda si ottiene una pasta più o meno
plastica, che può essere impiegata nella cura di varie malattie e disturbi.

Ricordiamo, inoltre, che l’argilla preparata con acqua salata (sale marino integrale) e priva
di cloro accresce la sua efficacia terapeutica.

Per ottenere un’argilla idonea all’utilizzo esterno è opportuno rispettare i seguenti
passaggi: 
1. porre uno strato di 2-3 cm di argilla sul fondo di un recipiente di vetro o di ceramica
(per 2 cucchiai di argilla un cucchiaio e mezzo di acqua);
2. aggiungere acqua fredda fino a ricoprire l’argilla e mescolare con un cucchiaio di
legno, lasciando che il liquido venga completamente assorbito fino a ottenere un
impasto a consistenza cremosa;
3. coprire con una garza o con un panno per evitare che si depositi qualche corpo
estraneo e lasciare riposare per qualche ora; se le condizioni meteorologiche lo
consentono esporre l’argilla al sole; 
4. l’argilla pronta per l’uso si presenta liscia come creta, omogenea e con una
consistenza cremosa: raccolta su un cucchiaio di legno, non deve colare. 
La consistenza dell’impasto può essere aggiustata aggiungendo un po’ di argilla (quando
l’impasto risulta troppo molle) o un po’ d’acqua, quando l’impasto è troppo asciutto.
L’argilla così preparata può essere conservata pronta per l’uso per un tempo indefinito:
sarà sufficiente assicurarsi che sia conservata al buio in un sacchetto, un vaso di
terracotta o in un qualsiasi altro recipiente e aggiungere acqua se indurisce per la parziale
evaporazione dell’acqua.
È indispensabile non lasciare mai l’argilla a contatto con oggetti o recipienti metallici
poiché piccole quantità di metalli anche tossici vengono rilasciate a causa dell’elevato
potere di assorbimento strutturale dell’argilla.

                                                           UTILIZZO ESTERNO            

Per uso esterno l’argilla si utilizza sotto forma di: cataplasmi e impiastri, polverizzazione,
bagni, unguenti, maschere e frizioni. È opportuno utilizzare argilla grossa per impacchi e
cataplasmi di grandi proporzioni mentre l’argilla macinata fine è più indicata per impacchi e
cataplasmi di normali proporzioni, polverizzazioni, unguenti, maschere e frizioni.

1. Cataplasmi e impiastri
Cataplasmi e impiastri di argilla sono ancora oggi i metodi di utilizzo più usati in
argilloterapia; sono impasti dove oltre all’argilla si possono aggiungere anche
estratti vegetali, oleoliti, oli essenziali che in alcuni usi ne amplificano l’efficacia.
Il cataplasma consiste nell’applicare sul corpo la pasta di argilla e acqua distesa su
un telo di stoffa. 
Se non viene altrimenti indicato, il cataplasma deve essere a temperatura ambiente;
dove è indicato il cataplasma caldo, l’argilla va scaldata a bagnomaria. Per non
suscitare una reazione di fastidio, il cataplasma va applicato gradualmente,
appoggiandone prima un angolo sulla pelle e proseguendo lentamente finché
l’organismo si abitua alla temperatura. Il cataplasma deve essere fissato con
bendaggi in modo che non si sposti, ma anche senza stringere e deve essere
lasciato al suo posto per 30 minuti e per un massimo di 2-3 ore. Quando è il
momento di toglierlo si lava la parte con acqua fredda o tiepida con una spugna. 

Il cataplasma di argilla è utile nella cura di manifestazioni artrosiche, distorsioni,
slogature, contusioni. 
L’impiastro, miscela di argilla e acqua con la consistenza di una creta è applicato
direttamente sulla parte del corpo da trattare in uno strato di circa mezzo
centimetro. Trascorso il tempo necessario, che può variare da 2-3 ore fino
all’essiccamento, si rimuove l’impiastro facendo uso di un cucchiaio o di una spatola
di legno e si lava la parte con una spugnetta inumidita con acqua tiepida.
L’impiastro è molto efficace nelle affezioni dell’apparato digerente e dermatologiche
(ulcere, dissenterie, coliti, enteriti, piaghe, dermatiti).
2. Bagni parziali o totali
Si sceglie un’argilla verde macinata fine o grossa da stendere sul fondo di una
bacinella (tre-quattro manciate di argilla equivalenti a circa 80-100 grammi) che
sarà riempita di acqua calda con il 5% di sale marino integrale, mescolando sino a
quando l’argilla sarà sciolta e in sospensione. Questa preparazione può essere
utilizzata per gargarismi, lavaggi vaginali, clisteri, pediluvi e maniluvi. Per un bagno
totale versare in una vasca colma di acqua tiepida 1/2 chilo di argilla e,
eventualmente, 10 gocce d’olio essenziale di lavanda, mescolare e immergersi per
15 minuti, eseguendo movimenti con gambe e braccia. Ci si sciacqua, quindi, con
acqua tiepida e ci si corica a letto ben coperti per circa un’ora. 
3. Frizioni
Per prepararle, è sufficiente ottenere una poltiglia molto liquida di argilla fine in
polvere nella quale s’immergerà un pezzo di tela che basterà far sgocciolare prima
di applicarlo sulla parte da trattare. Le frizioni sono utili in caso di piaghe e ferite e in
caso di dolori reumatici e artrosici. 
4. Maschere
Versare in una ciotola un bicchiere di argilla a grana fine, mezzo bicchiere di acqua
ed un cucchiaio di yogurt. Mescolare fino a ottenere un composto omogeneo da
spalmare sul viso e sul collo.
Lasciare in posa 15 minuti e risciacquare con acqua tiepida.
La maschera, uno dei trattamenti cosmetici e terapeutici più utilizzati, si comporta
come una potente carta assorbente che toglie le tossine dell’epidermide e
contemporaneamente cede sostanze minerali, elementi rivitalizzanti ed energetici.
L’azione meccanica superficiale che si esplica durante l’asportazione della
maschera stessa, inoltre, consente l’eliminazione delle lamelle cornee superficiali e
rende la pelle più chiara, sgrassata e pulita.
5. Polverizzazione
Si usa l’argilla fine e polverizzata come un talco da applicare direttamente sulla
parte interessata. Essa presenta un’efficace azione antisettica e cicatrizzante utile
contro gli eritemi, i pruriti, il sudore, gli arrossamenti, le screpolature della pelle, le
piccole ferite e contro l’eccessiva sudorazione dei piedi.
6. Unguenti
Aggiungendo olio extravergine di oliva (oleoliti, olio di mandorle o di jojoba), miele,
burro o glicerina alla polvere di argilla fine è possibile ottenere unguenti per uso
terapeutico per medicare escoriazioni, geloni, rossori, ulcere e dermatiti in generale. 
Si adopera un tovagliolo o un pezzo di tela e si spalma l’unguento sulla parte da
trattare. 

UTILIZZO INTERNO
L’argilla fine, ventilata e impalpabile, è la migliore per uso interno poiché libera molti più
elementi curativi di quanto non possa fare un’argilla a granulometria più grossa.
Essa presenta, inoltre, un grande vantaggio terapeutico: transitando dal tubo digerente
fino all’intestino, nel suo percorso si fissa alle tossine e permette la loro eliminazione. Si
utilizza diluendola in acqua e bevendola, oppure ingerendola sotto forma di compresse,
pillole e bastoncini.
1. Bevanda diluita in acqua (acqua argillosa)

È assolutamente necessario utilizzare acqua di fonte che non sia trattata con il cloro
o, in alternativa, acqua oligominerale. 
Dopo aver messo un cucchiaino di argilla (fino a tre come dose massima) in un
bicchiere di vetro si mescola l’acqua con un bastoncino di legno (non vanno
comunque usati strumenti di metallo), si copre con una garza e si lascia riposare il
composto, meglio se al sole, per almeno 10-12 ore prima di berlo.
Il mattino successivo si berrà solo l’acqua sopranatante lasciando il deposito sul
fondo del bicchiere.
Questo liquido superiore acquoso si presenta opaco (soluzione colloidale) ed è
conosciuto sotto il nome di gel di argilla o sopranatante: contiene tutti gli elementi
dell’argilla.
Nei casi in cui è specificato e utile per ottenere un determinato effetto terapeutico, si
agita la soluzione mandando tutta l’argilla in sospensione e bevendo tutto il
contenuto.
L’argilla deve essere assunta sempre lontano dai pasti, preferibilmente di mattina,
per circa un mese, facendo poi una pausa per una decina di giorni, quindi ripetendo
ancora per un mese l’assunzione di acqua argillosa. Questo schema si può ripetere
due o tre volte durante l’anno. L’argilla diluita in acqua depura il sangue e tutto
l’organismo, neutralizza le tossine e apporta alle cellule elementi indispensabili alla
loro vitalità e alla loro difesa: silicio, alluminio, ferro, calcio, sodio, potassio,
magnesio e altri elementi chimici.
IL pH della sospensione acquosa, inoltre, è vicino alla neutralità, né troppo acido né
troppo basico, per cui essa possiede un’interessante attività tamponante antiacida
che la rende particolarmente utile in caso di iperacidità gastrica o di ulcere. 
2. Compresse
Per preparare una compressa bisogna formare una piccola pallina con una miscela
di argilla ottenuta con 2 parti di argilla e 2 parti di acqua. 
Dopo l’essiccazione al sole, le compresse si ingeriscono con un po’ di acqua nelle
dosi e per la durata consigliata dal terapeuta; sono utili soprattutto nell’acidità di
stomaco, aerofagia e coliti.
3. Pillole e bastoncini
È un metodo di assunzione attualmente usato solo in India, America del Sud e Cina
dove, già anticamente, si faceva essiccare l’argilla più pura in pillole o bastoncini.
Nella medicina tibetana si usa preparare le pillole aggiungendo “sostanze
benedette” e recitando molti mantra; a volte si confezionano dei bonbon di argilla
con essenze aromatiche o decotti di piante. 
Si consiglia di succhiare piccoli pezzi d’argilla in caso di gengiviti, stomatiti, piorrea
alveolare, angine, raffreddori. 5
Precauzioni di Utilizzo e Tossicità
Anche se da un punto di vista strettamente tossicologico non sono noti effetti nocivi
dell’argilla sulla salute dell’uomo, data la delicatezza del prodotto, si rammenta di seguire
molto scrupolosamente le indicazioni del medico di fiducia o del naturopata.
Bisognerà, innanzitutto, verificare la personale compatibilità con l’argilla che si intende
usare: può accadere, infatti, che l’attività di una determinata argilla sia talvolta eccessiva
per una persona particolarmente sensibile, provocando reazioni allergiche o crisi di
stanchezza. 
Per uso esterno è bene iniziare con applicazioni di breve durata, soprattutto se è la prima
volta che si ricorre all’argilla. 
Se si prova una sensazione di eccessivo calore o di freddo la cura va sospesa.
È raccomandabile non applicare il prodotto argilloso sul petto, la pancia o i reni durante il
periodo della digestione, né in concomitanza con le mestruazioni. 
L’argilla per uso interno può dare stitichezza; durante la cura si deve avere l’avvertenza di
ridurre il consumo dei grassi. 
I grassi, infatti, tendono a indurire l’argilla, creando palline che possono intasare le anse
dell’intestino.
Chi avverte un senso di nausea nel bere l’acqua argillosa può correggerne il gusto con
qualche goccia di limone o miele.






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grazie 
P.F.